L’acquazzone e lo stato di calamità

L’acquazzone e lo stato di calamità

Roma, 20 ottobre 2011 ore 7.00. Un temporale di poco più di un’ora allaga la città e la mette in ginocchio. Scene apocalittiche, di gente rimasta arrampicata su un cancello dove si è andata a salvare, chi spinge una moto sommersa con l’acqua che gli arriva alle spalle, autovetture lasciate galleggiare, dai proprietari fuggiti, su quella che doveva essere una piazza.

D’accordo, si è trattato di un fenomeno meteorico anomalo, ma Roma va in panne appena Giove pluvio scarica un po’ di lacrime sul suo suolo. E’ un fenomeno endemico, frutto dell’incuria e dell’abbandono in cui la città è lasciata. Il patrimonio pubblico, dalle fogne, alle strade, ai marciapiedi, ai giardini, è in uno stato di degrado senza precedenti. In questa città non esiste più alcun intervento manutentivo, neppure quello – banalissimo – della pulizia periodica delle caditoie o della disostruzione dei tombini dalle foglie. Nessuno si cura più di effettuare interventi preventivi che impediscano o limitino vicende come questa.

L’acquazzone del 20 ottobre è riuscito fin dove neppure i teppisti della manifestazione del precedente sabato 15 erano arrivati: ci è scappato, infatti, persino un morto (affogato, in zona Infernetto)!

Nessuno pensa che nei Paesi del Nord Europa, dove piove per davvero, possano accadere fenomeni tipo quelli che si son visti a Roma il 20 ottobre.

Si dice che non ci sono soldi per fare una seria programmazione della manutenzione del patrimonio pubblico. Non è vero. I soldi si spendono, ma per altro. Ci accingiamo ad ospitare l’ennesima versione del festival del Cinema di Roma, che scimmiotta quello (vero) di Venezia e costa l’ira di Dio. Ai romani che la mattina si alzano presto per andare a lavorare, ai genitori che accompagnano i loro bimbi a scuola, ai commercianti che tirano su la serranda, non gliene frega nulla del red carpet e ne farebbero volentieri a meno: vorrebbero, invece, una città più pulita, più fruibile, più comoda. Una città tenuta come Parma, Verona, Sondrio, Como, Ascoli Piceno. Una città dove i lampioni dell’illuminazione pubblica si accendono tutte le sere, dove se si vuole andare sulle montagne russe si sceglie il Luna Park e non i sampietrini di Via San Gregorio, dove i cestini dei rifiuti si svuotano un paio di volte al giorno, dove la metropolitana è un servizio pubblico non un carro bestiame, dove le strisce pedonali si vedono più dei mega-cartelloni pubblicitari abusivi.

Il Comune si è affrettato a chiedere lo stato di calamità dopo il temporale. Serve per distrarre l’attenzione sulle responsabilità, che non sono del Padreterno.

I romani dovrebbero domandare, invece, lo stato di calamità per come e da chi sono amministrati.

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