Il quinto (cinque come cinque) potere

Il quinto (cinque come cinque) potere

cinqueC’è una singolare coincidenza tra la ricorrenza del numero 5 e gli organi di informazione. E’ vero, “Quinto Potere”, il celebre film di quarant’anni fa diretto da Sidney Lumet e che vinse ben quattro premi Oscar, riguardava, in realtà, più specificatamente il settore della televisione: tuttavia la ferocissima parodia contenuta nel capolavoro cinematografico, che ebbe il merito di narrare il cinismo e la totale assenza di senso morale da parte dei protagonisti di quel mondo, a ben vedere si potrebbe benissimo adattare anche al sistema della stampa, soprattutto di parte di quella italiana.

Assistiamo giornalmente al fenomeno in cui uno o più giornalisti inventano letteralmente dal nulla delle notizie, ovvero riferiscono fatti o circostanze appresi in via indiretta senza periziarsi neppure un minimo di verificare l’attendibilità della fonte oppure di effettuare accertamenti, in prima persona, circa la veridicità delle situazioni raccontate.

Il quotidiano on line “Cinque” (la coincidenza “numerica” non tradisce), a fine marzo 2015, nel riportare la notizia che il TAR Lazio aveva accolto il ricorso avverso la deliberazione dell’anno prima con la quale il Comune di Roma aveva stabilito la pedonalizzazione di una piccola piazzetta romana, quella della Colonna Traiana (enfaticamente, falsamente ed inconcepibilmente definita come “una delle misure più importanti per la definitiva chiusura alle auto di via dei Fori Imperiali”), l’ha fatta grossa. Nel senso che ha pubblicato un articolo davvero stravagante, privo peraltro di firma, che contiene almeno cinque (non è una fissazione, eh?!) cazzate megagalattiche e che lo rendono davvero un pezzo unico nel panorama del giornalismo del pianeta.

L’articolo presenta il seguente titolo: “Comune di Roma, troppe delibere bocciate: dubbi sull’Avvocatura”. Immancabile un sommario ad effetto: “Quinta sanzione del Tar a un provvedimento del Campidoglio: gli uffici legali dovrebbero controllare i testi prima della loro approvazione”.

Grazie a questo genere di titoli il lettore disattento, ma specie se “addetto ai lavori” (quindi che so, un giurista ad esempio), viene quindi portato ad approfondire la narrazione e tentare di scoprire perché, secondo la testata, la colpa delle bocciature del giudice amministrativo sarebbero proprio di chi è chiamato a difendere in giudizio l’Ente pubblico, trascinato in Tribunale.

E’ opportuno, tanto per rimanere al tema della cinquina, passare in rassegna una per una le chicche raccontate dalla prestigiosa testata on line. Non prima di aver sottolineato che l’acuto ed anonimo redattore premette di aver l’ambizione, però, di “spiegare” al lettore, assumendo quasi le vesti di un docente, come funziona l’iter di adozione degli atti amministrativi al Comune di Roma.

La prima cazzata è stratosferica e fa autenticamente sbellicare dalle risa. L’autore del pezzo afferma testualmente: “A quanto ci risulta, ogni atto amministrativo viene sottoscritto dal segretario generale del Comune Liborio Iudicello”. Capperi, verrebbe da esclamare! Questo aspirante al premio Pulitzer prima di far scattare la molla della sua modesta pennetta a sfera non ha fatto come molti suoi colleghi che non hanno a cuore il senso della propria dignità e scrivono di cose che non sanno: egli, invece, si è addirittura diligentemente documentato (“a quanto ci risulta”, dice, usando per di più il plurale maiestatis) sull’iter che si segue per emanare gli atti amministrativi a Roma Capitale. Ed ha scoperto che “ogni atto amministrativo” è sottoscritto dal Segretario Generale. Il quale, invece, gli unici atti che sottoscrive sono, ai sensi del Testo Unico degli Enti Locali (D.L.vo n. 267 del 2000) i contratti. Per il resto non firma nulla, perché la legge non glielo richiede. Egli presta la propria alta assistenza giuridico-amministrativa limitatamente agli atti degli organi politici collegiali (Giunta ed Assemblea) e controfirma le ordinanze sindacali. La stragrande parte degli atti amministrativi comunali, che sono quelli adottati – a decine di migliaia ogni anno – dai Dirigenti, e che servono perché il Comune agisca nel concreto, il Segretario manco li vede. Figuriamoci, quindi, se li firma.

La seconda (che è un po’ come i cavoli a merenda…. : cit.). Per spiegare che, a suo giudizio, gli atti più importanti del Comune di Roma li dovrebbero visionare previamente gli Avvocati interni, il giornalista di “Cinque” persevera nel suscitare l’ilarità collettiva e giunge persino a coprirsi di ridicolo, incappando nella seconda cazzata: “Nell’Avvocatura capitolina ci sono 23  capi area, ciascuno dei quali guida un ufficio con decine di avvocati”. Egli descrive quindi l’esistenza di un vero e proprio esercito di legulei, alle dipendenze del Comune di Roma, che brulicherebbero nel Palazzo Senatorio intenti a consultar Codici e Pandette. Dove abbia attinto la notizia data, questo fenomeno del giornalismo dé noantri, non si sa. Sarebbe stato sufficiente che avesse acceso il suo pc, per visionare il sito internet del Comune, dove l’Avvocatura capitolina è descritta nei minimi dettagli (in omaggio ai principi della trasparenza), allo scopo di evitare di incappare nel pubblico ludibrio. Ma, forse, si trattava di operazione che costava fatica. La pianta organica degli Avvocati comunali è, infatti, di 26 posti totali. Attualmente in servizio ce ne sono peraltro solo 21. Sono divisi (tutti e 21, sempre e solo loro) in nove settori organici di materie e non “guidano”, non dico decine, ma neppure un solo avvocato oltre sé stessi. Dopo aver letto quel pezzo, in verità, qualcuno si è messo alla ricerca di queste orde di togati che secondo il quotidiano “Cinque” affollerebbero le stanze del Campidoglio: a seguire quella indicazione se ne sarebbero dovuti incontrare a centinaia (se ogni “capo area” – e di questi ce ne sarebbero 23 – ha sotto di lui “decine di avvocati”, il conto è presto fatto). Ne sono stati rinvenuti, però, solo e sempre i soliti 21 (tra qualche mese, a causa di un collocamento in quiescenza, ce ne saranno 20). Dunque si deve necessariamente dedurre che il bizzarro giornalista abbia ingerito una sostanza alquanto tossica poco prima di affermare che al servizio di Roma Capitale ci sono decine di avvocati.

La terza cazzata, che caratterizza quel capolavoro di articolo, è più veniale delle altre e si giustifica con lo scarso acume giuridico che dimostra di avere l’autore del pezzo. Egli, infatti, giunge a suggerire che gli atti amministrativi debbano essere rivisti, quando sono ancora in bozze, dagli avvocati, i quali così sarebbero in grado di (testuale, da finissimo giurista) “prevedere tutte le possibilità e gli inghippi sui quali le delibere potrebbero venir cassate”. Insomma, il consiglio è più o meno questo: visto che li pagate, questi avvocati, non potreste utilizzarli per “prevenire invece che curare?”. Il giornalaio intento a discettar di “inghippi” ignora, meschino, che è vietato, per un Ente pubblico, utilizzare il dipendente, che ha iscritto all’Albo degli avvocati, per fargli svolgere attività amministrativa. L’avvocato, in altre parole, non può “suonarsela e cantarsela da solo” (scrivere gli atti ed andarseli a difendere, cioè). Si tratta di un principio secolare, in base al quale è imposto che la funzione amministrativa debba essere separata e distinta da quella forense. Certo, all’avvocato è richiesto normalmente di svolgere attività consulenziale, ma non certo su ogni singolo e specifico provvedimento: i suoi pareri attengono infatti a questioni di massima e di principio. Insomma, l’avvocato dell’ente pubblico fa qualcosa di ontologicamente diverso dal collega del libero foro (il quale spesso è chiamato a scrivere persino il testo dei contratti per il proprio cliente). Se ci avesse chiamato prima, la direzione del quotidiano “Cinque”, invece di lanciarsi dal precipizio senza paracadute, glielo avremmo spiegato. O, meglio, avremmo “tentato” di spiegarglielo (non è detto che avrebbero compreso).

La quarta cazzata. Il nostro candidato preferito al “Premio internazionale di giornalismo di Ischia” non ha resistito. Era troppo goloso, il tema. Quello degli stipendi faraonici degli avvocati comunali. E anche il quotidiano on line ci si è buttato a capofitto, dopo che altre testate – in un contesto tipico del “dagli all’untore” – ci avevano goduriosamente inzuppato il pane nel recente passato. Ma “Cinque” lo ha fatto nel peggiore dei modi. Andando, cioè, a fare il (troppo agevole e per niente faticoso) gioco del “copia e incolla”. Si rispolvera così una vecchia relazione del Ministero dell’economia, si attinge ad un pessimo articolo di un quotidiano romano scritto sotto dettatura ed infine si rinvia ad un “saggio” obsoleto ma che ha il pregio di essere il frutto di una notissima firma del Corsera. “Gli avvocati del Comune di Roma godono di automatici ed illegittimi benefits ogni volta che, svolgendo il lavoro per il quale vengono pagati, riportano una vittoria in una causa nella quale il Comune è parte”. Verrebbe da interrogare il maestro del copia e incolla: “Automatici? E perché sarebbero tali? Illegittimi? E Tu che ne sai della legge?”. Ma sarebbe fatica sprecata e tempo perso. Quel tizio, visto che non è stato in grado di assumere la minima informazione corretta, tenuto conto che ha violato il dovere professionale di diligenza omettendo di documentarsi almeno un poco, non riuscirebbe sicuramente neppure a capire la spiegazione che gli dai, ancorché ti sforzi di utilizzare un linguaggio ed una terminologia non da giurista ma da free lance. E non saprebbe neppure leggere, a ben vedere, la deliberazione che, nel dare attuazione all’art. 9 del D.L. n. 90 del 2014 (quello di riforma della P.A.), il Comune di Roma ha approvato il 30 dicembre 2014. Una normativa che, in base alla legge vigente (non che non ce ne fosse una precedente in base alla quale gli onorari delle cause vinte si pagavano comunque in modo conforme), ha stabilito nel dettaglio i criteri di liquidazione ed i tetti massimi percepibili. Quella delibera, infatti, essendo un atto molto “tecnico” (un vero e proprio regolamento), gli dovrebbe essere a sua volta spiegata, decifrata, decodificata: avrebbe bisogno, cioè, di una sorta di badante che gliela interpreti. E, comunque, nel merito, nessun “automatismo”, nessuna “illegittimità”.

La quinta cazzata: anche questa frutto di una superficialità e di una sciatteria fuori controllo, a dimostrazione che al giorno d’oggi quella del giornalista, peggio che per gli avvocati, sta diventando una professione di pseudo-disoccupati. La testata “Cinque” afferma che il Capo degli Avvocati comunali ha uno stipendio di 270.000 euro l’anno. Sarebbe stato sufficiente, anche qui, un “click” (Portale comunale, sezione Amministrazione trasparente, Retribuzione dirigenti avvocati) e si sarebbe visto che nel 2014 lo stipendio del Capo dell’Avvocatura, al lordo delle trattenute fiscali (45%) e di quelle degli oneri riflessi (23,8%), entrambe ovviamente a carico del dipendente (come si spiega nella relativa tabella pubblicata tempestivamente, comunque due mesi prima del pezzo del quotidiano on line) è stato di Euro 216.539.

Qui non si tratta di stabilire se quell’importo sia troppo o troppo poco: ciò che conta è che l’informazione fornita da “Cinque” è falsa. Quando un giornale fornisce una notizia non vera è inattendibile. Su tutto. E se un giornale è inattendibile, prima o poi chiude: non cinque giorni su sette, ma sette su sette. E i free lance che erano sul suo libro paga inizieranno a pentirsi di aver contribuito al fallimento, con produzioni negligenti e goffe. Ma forse torneranno utili all’Italia: che ha tanto, ma davvero tanto, bisogno di braccia.

One Response to “Il quinto (cinque come cinque) potere”

  1. Ugo Di Perna scrive:

    Lavare la testa ai somari è acqua sprecata. In questo caso è sprecato l’inchiostro.

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