QUELLA VITA “COMODA” DEGLI AVVOCATI PUBBLICI

QUELLA VITA “COMODA” DEGLI AVVOCATI PUBBLICI

TAR LAZIO – Sez. III quater – 13 aprile 2011 n. 3222 – Pres. Riggio, Est. Ferrari – Federazione legali del parastato ed altri (avv.ti Scoca e Vetrò) c. I.N.P.S. (avv.ti D’Antino, Mercuri e Grosso), con l’intervento di Associazione legali I.N.A.I.L. (avv. Gigli).

1. – Pubblico impiego – Avvocati degli Enti pubblici – Specificità – Limiti.

 2. – Pubblico impiego – I.N.P.S. – Nuovo ordinamento funzionale – Avvocati dell’Ufficio legale – Subordinazione ai Direttori regionali e provinciali – Legittimità.

 3. – Pubblico impiego – I.N.P.S. – Nuovo ordinamento funzionale – Avvocati dell’Ufficio legale – Esternalizzazione di parte dell’attività – Legittimità.

 1. – Ciò che distingue gli avvocati di un Ente pubblico dagli altri dipendenti della medesima Amministrazione non è la specificità dell’attività da essi svolta al servizio della stessa, che è connotato di ogni attività lavorativa (portiere dello stabile, usciere, ragioniere, geometra, ecc.), ma il fatto che quella da essi svolta è condizionata al possesso di un particolare titolo abilitativo, richiesto anche per tutti gli altri dipendenti professionisti (medici, ingegneri, attuari, ecc.).

 2. – Sono legittimi i provvedimenti di riorganizzazione dell’I.N.P.S. nella parte in cui, nell’adeguare l’ordinamento dell’Ente alle disposizioni di cui alla L. 6 agosto 2008 n. 133, ed articolando le nuove funzioni territoriali dell’Istituto, collocano gli uffici legali in posizione subordinata ai Direttori regionali e provinciali.

 3. – E’ legittimo il provvedimento con il quale l’I.N.P.S., nel dar vita ad un nuovo modello organizzativo e funzionale, dispone il trasferimento di parte dell’attività, sino ad allora affidata esclusivamente ai legali dipendenti, ad avvocati esterni la cui scelta viene demandata alla Direzione generale.

                Quando mi è capitata tra le mani la sentenza in commento, redatta da un collegio della III Sezione quater del TAR Lazio, non volevo credere a miei occhi. In disparte la totale controtendenza rispetto all’orientamento secolare della giurisprudenza amministrativa, che caratterizza la decisione, ciò che risalta in modo evidente è un incredibile livore – assolutamente non comune, in generale, nelle sentenze del giudice amministrativo – nei riguardi degli avvocati dipendenti degli Enti pubblici e della loro professionalità, da lasciare sinceramente sbalorditi.

            E nel commentare la statuizione, non so davvero da quale parte iniziare il discorso.

            Sarà allora bene affrontare preliminarmente alcuni passaggi logici che connotano quella manifesta cattiveria che l’estensore non è riuscito a trattenere, senza che si possa peraltro dire, a scusante, che quelle frasi che estraggo, in quanto “decontestualizzate”, non rendono giustizia allo sforzo profuso dal Collegio per affrontare le molte censure sottoposte al suo esame: semmai, quelle considerazioni dimostrano, da sole, il grado di risentimento del tutto ingiustificato (a meno di non voler ricorrere a spiegazioni extra-giuridiche) che il Collegio ha voluto esternare in modo pressoché gratuito e non richiesto.

            In primo luogo va richiamata la reprimenda che l’estensore non ha affatto nascosto dinanzi alle molte doglianze avanzate dai ricorrenti e dagli interventori rispetto alla mole di scritti difensivi che ha dovuto esaminare: giungendo ad affermare che la lunghezza (del pari estenuante) della decisione (che occupa ben 58 pagine!) si è resa indispensabile proprio per rispondere a tutti i motivi di ricorso. Secondo il Collegio, la scelta difensiva – concretatasi in atti defensionali che hanno complessivamente raggiunto le trecento pagine – non può essere condivisa, atteso che oltre a violare i principi di sinteticità imposti al difensore si è rivelata infausta a causa della ripetitività degli argomenti dedotti. Quasi che il tema oggetto della contesa, così complesso e destinato a cambiare la vita professionale di centinaia di dipendenti, dovesse meritare poche battute per “favorire” un più agevole lavoro del giudice chiamato a decidere della legittimità dei molteplici provvedimenti gravati. Quasi che nel nostro ordinamento al dovere di sinteticità, che grava sul difensore, corrisponda pure quello di una limitazione delle domande o delle censure a queste sottese.

             1) La parte della sentenza che lascia esterrefatti è quella dove il Collegio si lancia in una disamina sociologica del lavoro svolto dagli Avvocati dipendenti di Enti pubblici, considerati in quel contesto motivazionale assolutamente nella loro genericità senza alcun riferimento, cioè, a quelli in servizio presso l’Inps che erano appunto i ricorrenti. Non posso fare a meno di riprodurre per intero il passaggio che mi ha suscitato sgomento: “Si tratta di soggetti che, pur essendo in possesso del titolo che li abilita all’esercizio della libera professione, hanno ritenuto conveniente non affrontare i rischi che, specie sotto il profilo economico, questa comporta ed hanno optato, sulla base di una personale scelta di vita e di calcolo di convenienza (si noti la ripetizione del concetto di “convenienza”: n.d.r.), per la sicurezza garantita, sotto profili diversi, da un lavoro svolto alle dipendenze di un solo datore di lavoro. Si tratta quindi di lavoratori subordinati che, al pari di ogni altro pubblico dipendente, percepiscono uno stipendio mensile; hanno diritto alle ferie retribuite; sono legittimati ad assentarsi dal lavoro, conservando il diritto alla retribuzione, in casi particolari; ove abbiano contratto un’invalidità permanente per causa di servizio percepiscono l’equo indennizzo e/o la pensione privilegiata; a seguito del collocamento a riposo per limiti di età o per dimissioni volontarie hanno diritto alla pensione ordinaria ed al trattamento di fine servizio. Benefici, questi, di cui non godono i lavoratori autonomi e quindi gli avvocati liberi professionisti, ai quali i ricorrenti tendono ad equipararsi”.

            Si tratta di considerazioni che appaiono essere espresse non già da un giudice amministrativo, ma da un semplice uomo della strada; connotate da un qualunquismo irritante, quelle frasi suonano come una sorta di doloso monito di discredito dei professionisti legali degli Enti pubblici, dipinti come soggetti che hanno garantiti privilegi e benefits immeritati e che, motivati da opportunistiche ragioni di “calcolo”, hanno optato per un lavoro tranquillo e sicuro.

            La prima cosa che viene da osservare dinanzi a tanta insensibilità (ma è solo la prima, si badi), tanto essa è superflua ed intuitiva, è che gli avvocati degli Enti pubblici, per essere tali, debbono affrontare e superare un concorso di norma estremamente selettivo, e quindi non hanno optato per quella vita, definita “senza rischi”, per graziosa concessione di qualcuno.

            La seconda osservazione che suscita quella parte di motivazione è assai banale ed altrettanto superficiale: le stesse cose si potrebbero dire per il magistrato, specie per quello amministrativo, che “per una propria scelta di vita ha optato per un lavoro che gli garantisce stipendio fisso e sicuro, avanzamenti di carriera automatici, un trattamento di fine rapporto ed una pensione, diritti vari (congedi, indennità, equo indennizzo in caso di contrazione di invalidità, ecc.)”. Se, poi, si volesse accennare a qualche malignità che gira per le stesse segreterie degli uffici dei giudici amministrativi, si potrebbe sibilare da un lato che il loro impegno extra-professionale (arbitrati, corsi retribuiti, lavori editoriali, consulenze varie, ecc.) supera di gran lunga quello di tipo istituzionale (ah, quelle sole due udienze al mese!), e dall’altro che persino quella dei giudici ordinari oggi costituisce la categoria che va maggiormente ad ingrossare i ruoli dei TAR (il che significa che questi ultimi stanno finanche “meglio” dei primi), ecc.: ma non è questa la sede per poter brutalmente banalizzare argomenti che, invece, meritano un più serio approfondimento e che non debbono essere affrontati con la stessa gratuita ferocia che traspare invece dalle pagine della sentenza annotata.

            La terza considerazione è che parte di quei convincimenti sono finanche grossolanamente errati: infatti, tanto per fare un esempio banale, anche gli avvocati del libero foro al termine della loro carriera professionale percepiscono una pensione erogatagli dalla Cassa di previdenza forense (ovviamente di importo proporzionato rispetto a quanto hanno versato, a titolo contributivo, durante la relativa attività lavorativa).

             2) Ma il Collegio, invece di sorvolare su queste premesse inutili e perigliose, insiste, con costanza degna di miglior causa: “ciò che li distingue (gli avvocati pubblici: n.d.r.) dagli altri dipendenti della medesima Amministrazione non è la specificità dell’attività da essi svolta al servizio di essa, che è connotato di ogni attività lavorativa (portiere dello stabile, usciere, ragioniere, geometra, addetto alla compilazione del bilancio preventivo e del conto consuntivo, ecc., sono tutti dediti ad una attività specifica), ma il fatto che quella da essi svolta è condizionata al possesso di un particolare titolo abilitativo, richiesto anche per tutti gli altri dipendenti professionisti (medici, ingegneri, attuari, ecc.)”.

            Non esito a sottolineare che se queste frasi fossero state presenti in uno scritto difensivo di un collega avversario avrei immediatamente chiesto al giudice lo stralcio per la loro gratuita ed offensività. Con tutto il rispetto che si può nutrire per il “portiere dello stabile” assimilare la funzione dell’avvocato a quella di chi presidia un ingresso di un edificio è operazione tanto irritante quanto metafisica. Il contesto all’interno del quale l’affermazione è espressa nella sentenza non è quello della “dipendenza” dall’Ente di appartenenza (sul quale non vi sarebbe stato da ridire) bensì quello della “specificità della funzione”. E nessuna omologazione può, se non in modo irragionevolmente astioso, essere effettuata tra un avvocato ed un altro “qualsiasi” dipendente dell’Amministrazione. Fiumi di inchiostro sono stati scritti dalla giurisprudenza per rimarcare questa sacrosanta ed innegabile distinzione tra la funzione esercitata dal professionista forense, assegnato all’Ufficio legale dell’Ente, e quella assolta dagli altri funzionari in servizio presso l’Amministrazione. Oggi, invece, si scopre – in base a questa bizzarra interpretazione, grazie a Dio tanto isolata quanto curiosa – che anche l’usciere vanta una sua “specificità” pari a quella dell’avvocato (e perché non anche “maggiore”??).

             3) Il TAR, poi, per smentire il diritto degli avvocati all’autonomia ed all’indipendenza dagli organi politici ed amministrativi dell’Ente dal quale dipendono, usa in modo distorto l’argomento (speso dalla difesa) della sostanziale omologazione ai colleghi del libero foro (sotto il profilo funzionale), giungendo ad esprimere concetti così scontati tanto da far pensare che il Collegio abbia ritenuto di aver scoperto l’acqua calda. Si legge, sul punto: “Ma anche sul piano tecnico-professionale è palese la differenza fra l’avvocato libero professionista e l’avvocato dipendente. Il primo è iscritto nell’Albo generale, che gli consente di accettare l’incarico da qualsiasi soggetto: il secondo è iscritto in un elenco speciale (ma va? L’art. 3 della legge professionale forense ha quasi ottant’anni! n.d.r.), che l’autorizza ad espletare l’attività forense solo su mandato e nell’interesse del suo unico cliente, il datore di lavoro che a questo titolo lo stipendia, con conseguente inibizione all’esercizio della stessa non solo in favore di terzi, ma anche a tutela di un interesse personale, per il quale è tenuto a servirsi del patrocinio del libero foro“.

     La superficialità del passaggio (davvero superfluo, peraltro, ad onta del dovere di sintesi che dovrebbe ispirare anche l’attività redazionale della sentenza) è impressionante. In disparte la circostanza che secondo la giurisprudenza l’avvocato dipendente, anche se iscritto nell’elenco speciale, è a tutti gli effetti di legge titolare dello ius postulandi e quindi può difendersi da solo in giudizio, ex art. 86 c.p.c. (il Collegio nega esplicitamente tale possibilità ma evidentemente non ha approfondito affatto il tema), è assai banale affermare che l’avvocato dell’Ente pubblico non è legittimato ad assumere la difesa in favore di terzi: ma ciò non vuol dire che la sua attività, dal punto di vista oggettivo-funzionale, sia diversa da quella del collega libero professionista. Sul primo profilo, infatti, si osserva che, contrariamente a quanto ritenuto nell’occasione dai giudici di Via Flaminia, in giurisprudenza vige invece il principio opposto a quello affermato, secondo il quale l’avvocato facente parte di un Ufficio Legale di un Ente può ben essere difensore di sé stesso nelle cause strettamente personali, cioè riguardanti esclusivamente la sua persona (cfr. Tribunale di Napoli 2 dicembre 1994, in Giust. civ. 1995, I, 2254). Il principio di cui trattasi trovasi affermato anche in sede di legittimità sin da epoca risalente (cfr. Cass. 31 marzo 1949 n. 744). Con riferimento al secondo profilo sia sufficiente leggere quella decisione dello stesso TAR Lazio la quale ha riconosciuto che gli avvocati pubblici non solo svolgono le stesse attività dei loro colleghi liberi professionisti, ma – semmai – hanno l’aggravio di essere assoggettati ad un doppio regime di responsabilità disciplinare (TAR Lazio, I, 19 maggio 1992 n. 738)!

             4) Gran parte della decisione, superate le premesse nelle quali come si è visto l’estensore ha voluto lanciare i suoi personali strali contro la genericità degli avvocati pubblici (a ben vedere le stesse considerazioni espresse in quelle premesse ben potrebbero valere anche per gli avvocati erariali, anche questi evidentemente secondo il TAR mossi da calcoli personali e da scelte di convenienza, e che peraltro non sono neppure iscritti ad alcun albo od elenco professionale, per legge), è poi dedicata al cuore del problema: se sia legittimo che un Ufficio legale sia coordinato da uno che avvocato non è e se la collocazione dell’Avvocatura possa essere effettuata in posizione subordinata rispetto ad una struttura amministrativa.

            Il Collegio avvisa innanzitutto del fatto che non è detto che la totale indipendenza dell’ufficio legale è comprovata dalla circostanza che il suo coordinamento sia riservato ad un dipendente appartenente al ruolo legale. E’ vero. Non è detto. Esistono infatti uffici legali di Amministrazioni pubbliche coordinati da un avvocato che appaiono senz’altro asserviti al potere politico o burocratico dell’Ente, e questo non può andar bene perché ne esce minata l’autonomia professionale dell’avvocato. Ma se il coordinamento è affidato ad un burocrate (specie se, come avviene oggi, gli apicali nel pubblico impiego debbono godere necessariamente del “gradimento” dell’organo di indirizzo politico), v’è assoluta certezza che quell’indipendenza non è garantita.

                Per smentire l’odierno assunto del TAR Lazio è sufficiente sfogliare i repertori di giurisprudenza, sia della giurisdizione amministrativa che ordinaria, per rendersi conto di quanto stravolgente sia la decisione in commento: “ai fini dell’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati, l’art. 3, ultimo comma, lett. b), del R.D. n. 1578/33 richiede che presso l’ente pubblico esista un ufficio legale costituente un’unità organica autonoma, e che coloro i quali sono ad esso addetti esercitino con libertà ed autonomia le loro funzioni di competenza, con sostanziale estraneità all’apparato amministrativo, in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione (Cass., SS.UU., 8 aprile 2002 , n. 5559; cfr. anche TAR Calabria, I, 22 dicembre 2008 n. 731, in fattispecie riguardante i legali di una ASL, secondo cui l’esistenza di un’autonoma articolazione organica dell’Ufficio legale dell’ente risulta indispensabile affinché l’attività professionale, ancorché svolta in forma di lavoro dipendente, venga esercitata con modalità che assicurino l’autonomia del professionista). Ancora: per il TAR Sardegna, II, 14 gennaio 2008 n. 7, è illegittimo il regolamento comunale che prevede che l’Ufficio legale sia alle dipendenze dell’Ufficio di staff ed in particolare del Segretario comunale, dovendo essere garantita la necessaria indipendenza degli uffici legali, i quali debbono essere posti in “diretta connessione” unicamente con il vertice decisionale dell’Ente.

            La decisione del TAR Lazio è ancor più sbalorditiva tenendo conto che confligge in modo plateale con i principi enunciati dalla stessa Corte costituzionale, che in varie volte (Corte cost. 30 aprile 1988 n. 703), ed ancora con una sentenza non antiquata, ha decisamente valorizzato la figura e lo status dell’avvocato pubblico, spendendo più di una parola sulla necessità che l’Ente di appartenenza gli debba garantire, in modo concerto e non certo apparente (quello voluto, cioè, dal TAR Lazio) l’indipendenza e l’autonomia dall’apparato gestionale dell’Amministrazione (cfr. Corte cost. 21 novembre 2006 n. 390).

                  Né a dire, per voler seguire il convincimento espresso oggi dai giudici laziali, che il vento sia cambiato e la normativa (specie quella recata dalla “legge Brunetta”) imponga una omogeneizzazione non più differibile nel campo del pubblico impiego, senza conservazione di ambiti esclusi dall’assoggettamento a controllo sulla perfomance: invero la stessa Corte dei conti, nell’ammettere che anche i legali dipendenti possano ben essere sottoposti, al pari di altro personale, a forme di verifica di merito, si è preoccupata di sottolineare che “è peraltro evidente che qualunque modalità di valutazione posta in essere nei confronti del personale di avvocatura di enti locali, avente o meno status dirigenziale, non può espandersi sino a prevedere – espressamente o surrettiziamente – forme di condizionamento e di soggezione che introducano una non tollerabile ingerenza nell’autonomia di giudizio e di iniziativa nella trattazione degli affari giuridico-legali attinenti specificamente alle competenze che il professionista può svolgere in virtù della sua iscrizione al relativo albo professionale, e che costituisce la ratio stessa del regime di incompatibilità di cui all’art. 3, ultimo comma, della legge forense n. 1578 del 1933 (cfr. Corte dei conti, Sez. contr. Campania, 26 marzo 2009 n. 14).

              Indipendentemente, quindi, dalle molle che hanno spinto un avvocato a diventare un legale interno ad una pubblica Amministrazione, conservando ovviamente l’iscrizione all’Albo (ancorchè presso l’Elenco speciale annesso), è evidente che gli avvocati pubblici, pur se professionalmente incardinati nelle strutture operative degli enti, restano tuttavia sostanzialmente estranei all’apparato amministrativo(Cass., 18 aprile 2002, n. 5559 cit.) e “posti in diretta connessione unicamente con il vertice decisionale dell’ente, al di fuori di ogni intermediazione (cfr. anche Consiglio di Stato, V, 16 settembre 2004, n. 6023).

                Principi, questi ultimi, ribaditi di recente dallo stesso TAR Lazio, a proposito degli avvocati dell’Inail (la cui associazione era perfino intervenuta in questo giudizio, per ricordare quel pronunciamento), ma evidentemente il Collegio, platealmente infastiditosi per le molte pagine che si sarebbe dovuto leggere, ha ritenuto bene di saltarne qualcuna, dal momento che un provvedimento assai simile a quello oggetto dell’odierno scrutinio è stato in quel precedente ritenuto illegittimo (cfr. TAR Lazio, III Sez., 5 gennaio 2010 n. 35).

                Che l’ufficio dell’Avvocatura di un Ente debba essere necessariamente autonomo è principio che incide sulla sua stessa esistenza in vita, come correttamente sottolineato da tutta la giurisprudenza amministrativa, anche quella coeva alla pronuncia in commento (“Al fine dell’iscrizione negli elenchi speciali annessi all’albo degli avvocati, l’art. 3, ultimo co., lett. b), R.D. n. 1578/1933, richiede che presso l’ente pubblico esista un ufficio legale costituente un’unità organica autonoma e che coloro i quali ne sono addetti esercitino le loro funzioni di competenza con libertà ed autonomia, oltre che sostanziale estraneità all’apparato amministrativo, ovverosia in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione”: Tar Salerno, II, 18 gennaio 2011 n. 75).

               Molteplici sono le statuizioni di annullamento di atti, regolamentari o comunque organizzativi, che hanno preteso assoggettare uffici legali (anche di modeste dimensioni, come nel caso della sentenza del Consiglio di Stato del 2004 poc’anzi citata), all’impianto burocratico dell’Ente, giustificando la decisione demolitoria con la stessa intima essenza della professione forense (“tale assetto organizzativo appare tale da compromettere, in certa misura, l’autonomia professionale del legale preposto all’ufficio, in quanto non incide solo sulla disciplina degli assetti burocratico organizzativi insiti in ogni rapporto d’impiego pubblicistico quale, comunque, è quello di specie, ma appare tale da incidere anche sulla sfera professionale del professionista legato all’ente locale dal predetto rapporto di pubblico impiego”: Cons. Stato n. 6023 del 2004, cit.).

               Peraltro, se non fosse così, se – cioè – l’avvocato dell’Ente pubblico non fosse collocato in una struttura del tutto estranea all’apparato amministrativo, rischia la stessa permanenza nell’Elenco speciale e, dunque, è esposto al provvedimento di cancellazione d’ufficio da parte del Consiglio dell’Ordine di appartenenza (si veda, in proposito, la giurisprudenza costante del C.N.F.; “Per uffici legali devono intendersi quelli dotati di una propria autonomia, cui sono affidati compiti di consulenza e assistenza, giudiziale e stragiudiziale, in controversie coinvolgenti gli enti di appartenenza”: dec. 29 maggio 2006 n. 37. “Il dipendente pubblico abilitato all’esercizio della professione forense, per ottenere l’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo professionale deve di mostrare che: – presso l’ente da cui egli dipende esista un ufficio staccato e autonomo, con specifica trattazione degli affari legali dell’ente; – che a detto ufficio egli sia adibito esercitando con libertà ed autonomia le funzioni di competenza, con sostanziale estraneità all’apparato amministrativo in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico”: dec. 20 ottobre 2004 n. 239).

                   Si potrebbe continuare all’infinito per dimostrare che la sentenza del TAR Lazio rappresenta una isolata inversione di tendenza rispetto ad un solco interpretativo che, oltre a valorizzare la funzione dell’avvocatura pubblica, rappresenta un baluardo insormontabile perché ad essa venga garantita la necessaria autonomia: “l’Avvocatura dell’ente locale deve possedere una struttura organica ed organizzativa, posta in posizione autonoma ed equiordinata rispetto alle restanti strutture di massimo livello del Comune (sott’ordinata esclusivamente al vertice decisionale dell’Ente) ed operante in posizione di indipendenza da tutti gli altri settori dell’ente; in caso contrario, si configurerebbe anche un vulnus alla stessa autonomia professionale degli avvocati, ancorché l’attività lavorativa svolta dai medesimi si configuri come lavoro dipendente. Occorre quindi che il soggetto che di tale struttura abbia la responsabilità, da un lato, debba essere collocato in una posizione apicale nel comparto di riferimento che corrisponda a quella di ogni altro preposto alle restanti unità e, dall’altro, non debba sottostare ad alcuna subordinazione gerarchica nell’esercizio degli affari giuridico-legali afferenti le sue competenze, in guisa tale che non si possa, in astratto, configurare alcuna ipotesi di avocazione dell’affare” (in termini, Cons. giust. amm. Sic. 15 ottobre 2009 n. 932).

             Tutto ciò premesso, riesce incomprensibile capire come possa essere legittimo un provvedimento che collochi l’Ufficio legale (nella specie, di uno dei più grandi ed importanti enti del parastato) all’interno di una struttura burocratica diretta da personale appartenente all’area amministrativa (direttori provinciali e regionali).

               Ciò che nessuno chiede, ragionevolmente, è che l’Ufficio legale sia collocato in posizione di apicalità rispetto alle altre strutture dell’Ente (Cons. Stato, V, 15 ottobre 2009 n. 6336) ma non si può non rivendicare la estraneità dall’apparato amministrativo: ed anzi proprio questa è la caratteristica che contraddistingue i componenti dell’Avvocatura pubblica e li fa essere diversi, “specifici”, dal portiere dello stabile, dall’usciere, dal ragioniere.

 5) Così come si era aperta, la statuizione in commento si avvia alla sua conclusione con altre considerazioni gratuite (e comunque superficiali ed errate) che dipingono gli avvocati pubblici come una sorta di congregazione di impuniti rispetto ai profili di responsabilità. Si legge nella motivazione: “La responsabilità del legale è invece sostanzialmente limitata alla violazione degli obblighi del Codice deontologico. Nessuna responsabilità personale e patrimoniale è invece imputabile all’avvocato in conseguenza dell’esito sfavorevole, per il suo datore di lavoro, della causa a lui affidata, per temerarietà della stessa o per non aver utilizzato, non importa se per impreparazione o negligenza gli strumenti giuridici che gli avrebbe assicurato un risultato diverso” (…). “Non risulta dall’esame della giurisprudenza riportata nelle banche dati che il legale, colpevole di dette infrazioni, sia mai stato denunciato dall’Ente di appartenenza al Consiglio dell’Ordine, sottoposto a procedimento disciplinare per queste specifiche imputazioni, condannato a risarcire l’Amministrazione per i danni economici e morali subiti in conseguenza di un patrocinio svolto in palese violazione dei doveri incombenti sul pubblico dipendente o di quelli deontologici…. Il massimo che gli può capitare è di essere messo da parte per incapacità professionale”.

                Dinanzi a tanto livore è arduo riuscire a trattenere una sia pur elegante e contenuta reazione.

              Com’è noto gli avvocati pubblici, in quanto iscritti nell’Elenco speciale annesso all’Albo degli avvocati tenuto dal Consiglio dell’Ordine di appartenenza, sono sottoposti ad un doppio status, con conseguente duplice regime disciplinare (da un alto quello interno, dall’altro quello dell’Ordine professionale). Se è vero che gli avvocati dipendenti frequentano assai di rado le aule della disciplina presso l’Ordine di appartenenza ciò lo si deve a due sostanziali ragioni: da un lato, gran parte del Codice deontologico forense non si applica a loro (si pensi alle norme sui rapporti con la parte assistita, che sono prevalentemente se non esclusivamente concepite con riferimento al contratto che interviene tra libero professionista e parte privata), dall’altro lato è evidente che gli avvocati pubblici debbono essere meno inclini dei loro colleghi del libero foro a commettere infrazioni deontologiche (si pensi all’obbligo di non utilizzare espressioni offensive negli atti defensionali), prevalendo in loro la “mission” di legali di un Ente pubblico, con conseguente oggettiva tensione verso la difesa di interessi collettivi.

                  Tuttavia costituisce una grande banalità quella per la quale l’avvocato pubblico non è mai chiamato a rispondere dell’eventuale negligenza od imperizia nella quale sia incappato, cagionando così un danno all’Ente (semmai, con formula parimenti qualunquistica, la stessa affermazione ben potrebbe valere per il magistrato, categoria com’è noto fortemente criticata dall’opinione pubblica italiana proprio per essere sostanzialmente sottratta alla responsabilità civile). Se le banche dati consultate dall’estensore non rinvengono precedenti giurisprudenziali che trattano casi di contestazione a danno degli avvocati pubblici il consiglio è quello di cercare meglio (oppure di abbonarsi, magari a spese proprie come fanno gli avvocati dipendenti, a prodotti editoriali più completi). Un precedente emblematico, ad esempio, è quello di Corte conti, Sez. giur. Lazio, 29 novembre 2005 n. 2646 (edita, tanto per non essere accusato di essermi inventato il precedente, in Riv. Corte conti 2005, 224) secondo la quale sussiste la responsabilità di un avvocato di un ente pubblico che non ha seguito con la dovuta diligenza un giudizio di rilevante valore economico omettendo di fornire le prove del credito vantato e non avendo ottemperato all’ordinanza del giudice di produrre la relativa documentazione e di citare i testi nonostante questi ultimi fossero stati regolarmente ammessi. Ancora: gli avvocati pubblici rispondono dinanzi al giudice contabile ove dal loro contegno l’Ente subisca un danno erariale: sussiste infatti la responsabilità amministrativa di un avvocato dipendente di un Comune per avere tenuto un comportamento caratterizzato da notevole negligenza ed ingiustificabile trascuratezza nell’espletamento di un incarico affidatogli nell’ambito di specifica controversia, tale da impedire al Comune di assumere, durante un largo arco temporale, qualsiasi tempestiva iniziativa finalizzata ad evitare o, per lo meno, a limitare il danno correlato alla progressiva maturazione di ingenti interessi legali sulla sorte capitale pretesa dalla controparte ed al lievitare delle spese processuali (Corte conti, Sez. giur. Sic., 23 luglio 2008 n. 2040, ivi, 2008, 164).

            Sotto il profilo deontologico (l’unico, secondo il paradossale convincimento del TAR, a venir in rilievo nel caso di errore del professionista legale), fermo restando il principio generale secondo cui l’iscrizione nell’elenco speciale non esime il professionista dall’obbligo di uniformarsi ai principi deontologici propri della classe forense (C.N.F. 23 aprile 2004 n. 79 e 30 maggio 2007 n. 53), esiste più di una pronuncia di condanna da parte del C.N.F. (organo giurisdizionale di secondo grado) che riguarda avvocati iscritti nell’Elenco speciale (cfr. decc. 3 maggio 2005 n. 75, 23 aprile 2004 n. 79 e 3 maggio 1995 n. 55, relative a legali dipendenti che svolgevano attività anche a favore di terzi).

            Sotto tale aspetto, infine, è proprio la più accorta giurisprudenza amministrativa (per giunta proprio quella laziale!), a sottolineare, dopo aver ribadito la necessità di un’assoluta indipendenza degli avvocati pubblici in sono all’Ente di appartenenza, che costoro rispondono di più di quel che son chiamati a fare i loro colleghi del libero foro, coi quali hanno in comune l’intero spettro di attività: “la collocazione degli appartenenti all’ufficio legale di un ente pubblico nell’ambito del ruolo amministrativo determina il sorgere di una sorta di sovrastruttura che contrasta con la natura professionale dell’attività da essi svolta, che si estrinseca al di fuori dei tradizionali moduli burocratici-organizzativi, ed, inoltre, crea situazioni pregiudizievoli per lo stesso ente; l’esercizio della professione di avvocato pubblico non si limita, infatti, al mero disbrigo di pratiche o allo studio di questioni legali, ma si estende ad una serie di operazioni materiali ed intellettuali che producono effetti all’esterno e che sono imputabili direttamente alla sua personale responsabilità, parimenti al libero professionista, dal quale l’avvocato pubblico si differenzia, peraltro, per la duplice soggezione all’ordine ed all’amministrazione” (in termini TAR Lazio, I, 19 maggio 1992 n. 738).

            Dunque desta sconcerto la frase secondo la quale “il massimo che gli può capitare è di essere messo da parte per incapacità professionale”: del resto, molti avvocati sarebbero semplicemente felici se solo ciò accadesse anche nella magistratura amministrativa.

             6) Certamente pittoresca è, infine, quella parte della sentenza nella quale si assume, da un lato, che gli avvocati pubblici (ma qui, va detto, il riferimento è specifico per quelli dell’Inps, che evidentemente debbono aver qualcosa da farsi perdonare dall’estensore) dovrebbero guadagnar di meno (visto l’enorme numero di cause perse) e, dall’altro, che l’affidamento degli incarichi ad avvocati esterni appare finanche operazione economicamente vantaggiosa rispetto “al costo enorme che l’Amministrazione sistematicamente sopporta per il pagamento degli onorari ai suoi legali interni, con i risultati di cui si è ampiamente detto”.

            Non è il caso di seguire il Collegio su un terreno minato come quello dell’individuazione delle ragioni che conducono ad una soccombenza in un giudizio (visto che il giudice non si è neppure posto il problema della possibile indifendibilità di taluni provvedimenti amministrativi), operazione che sarebbe comunque ardua visto il grado di faciloneria con la quale la sentenza sul punto indugia: ma non può farsi a meno di evidenziare che in presenza di un ufficio legale interno perfettamente costituito ed in difetto dei presupposti per il legittimo ricorso ad incarico esterno, costituisce causa di danno erariale e, pertanto, fonte di responsabilità amministrativa, in relazione all’esborso di pubblico denaro conseguitone, il conferimento ad avvocato esterno di un incarico che ben può essere espletato dai legali interni (per tutte, cfr. Corte conti, Sez. giur. Puglia, 23 gennaio 2003 n. 68).

            Certo è che desta meraviglia che, a fronte di decisioni della Corte dei conti che richiamano alle loro responsabilità quegli amministratori che, per ragioni clientelari, affidano ad avvocati esterni copiosi incarichi professionali pur in presenza di legali interni (cfr. Corte conti, III, 15 gennaio 2007 n. 16), il TAR Lazio reputi non solo legittima ma persino economicamente conveniente siffatta operazione!

             7) La decisione del TAR Lazio qui in commento non stride solo contro la giurisprudenza assolutamente costante, ma finanche con il comune sentire. Nel libero foro gli avvocati pubblici godono in genere di un livello eccellente di stima, per la preparazione che li contraddistingue (pur con la scarsità delle risorse loro messe a disposizione dagli apparati di appartenenza, che non sono neppure paragonabili a quelli che utilizzano i grandi studi legali, loro avversari) e per la lealtà che ispira il loro operato; nella curia, poi, gli avvocati dipendenti sono assai rispettati e spesso portati ad esempio come professionisti usi ad un comportamento deontologicamente ineccepibile.

                 Il loro ruolo, di garanti della stessa legalità presso le Amministrazioni, è stato esaltato in più di una importante occasione. Si vedano, a tal proposito, le conclusioni contenute nel documento del c.d. Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione, istituito dal Presidente della Camera dei deputati con decreto n. 211 del 30.9.1996. Il Rapporto che i componenti il Comitato (Cassese, Pizzorno, Arcidiacono) hanno redatto sul tema (si usciva dalla palude lasciava da quel fenomeno patologico noto col nome di “Tangentopoli”) è emblematico: “una delle ragioni principali della corruzione è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato la loro debolezza”!!

             Ecco, fornita, allora la risposta alla domanda “ma cosa hanno rappresentato, sin qui, i professionisti degli enti pubblici, ed in particolare quelli di estrazione culturale giuridica?”. Essi sono stati il baluardo a presidio della legittimità dell’azione dell’Ente o, ancor di più, i nemici di chi ha praticato il tentativo di corrompere la P.A., sono coloro che impediscono all’Amministrazione di esser più debole di quanto già non lo sia, quelli che le consentono di potersi rendere il più possibile impermeabile alle tentazioni di malaffare, che sono sempre in agguato.

                Per questo gli avvocati interni danno spesso fastidio, perché essi si mettono “di traverso” rispetto ai tentativi di speculare sulle risorse pubbliche: e sorprende che pure il Collegio della III Sezione quater del TAR Lazio abbia avvalorato l’operazione, mascherata da esigenze di efficienza, che porterà alla nomina di avvocati domiciliatari esterni per l’I.N.P.S. scelti, c’è da giurarlo, utilizzando criteri assai … mirati, da parte dei Direttori (nominati dal vertice dell’Ente, a sua volta ivi collocato dalla politica).

               In nome di questi risultati, innegabili ed encomiabili, uniti alla economicità oggettiva che consente di mantenere in vita le strutture interne (ad onta di quanto sostenuto oggi dal TAR, che incomprensibilmente ritiene l’affidamento degli incarichi a legali esterni addirittura più conveniente per il bilancio pubblico!!), l’assetto precario delle Avvocature degli enti è sopravvissuto ad ogni terremoto normativo e sociale, superando persino le pericolose stagioni delle privatizzazioni e gli effetti di altri fenomeni idonei a minarne le fondamenta (si pensi alle elezioni dirette dei rappresentanti legali degli enti pubblici territoriali, con ciò che ne consegue in termini di correlazione tra investitura popolare e necessità di rapporto fiduciario con la classe dirigente dell’apparato professionale dell’ente stesso).

              E, soprattutto, queste Avvocature sopravvivranno ancora, pure – c’è da giurarlo – alla sentenza odierna del TAR Lazio.

P.S. Ventitré dicembre duemilasedici. Palazzo Spada, Roma. Viene pubblicata la sentenza n. 5448 con la quale la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha annullato la decisione del TAR Lazio che ho sopra commentato. Un atto di giustizia. Il Supremo Consesso, fra l’altro, ha osservato come la pronuncia del TAR si caratterizzasse, “effettivamente, per un contenuto complessivo che non ha tenuto in adeguata considerazione l’effettiva peculiarietà e rilevanza dell’attività svolta dagli avvocati dell’Inps“.

5 Responses to “QUELLA VITA “COMODA” DEGLI AVVOCATI PUBBLICI”

  1. Rolando Dalla Riva scrive:

    Caro Rodolfo, sottoscrivo parola per parola il tuo commento alla sentenza del TAR Lazio. Curioso è il fatto che nella motivazione di una così voluminosa sentenza non vi sia alcun riferimento o citazione all’art. 3 della legge professionale forense (strano perché non mi pare una norma irrilevante …). Non un richiamo o un commento ad una sentenza delle SS.UU. che hanno più volte statuito (in maniere uniforme) in materia di requisiti delgi uffici legali della pp.aa.
    Solidarietà ai colleghi dell’INPS e speriamo che tale “arresto” sia spazzato via da una vera sentenza sull’argomento.
    Un caro saluto. Rolando

  2. Luca Capilupi scrive:

    Egregio collega,
    mi unisco all’unanime coro di vero stupore dei colleghi e dei giuristi per una sentenza che desta merviglia. Aggiungo, vista la mia pregressa esperienza, che detta decisione sembra essere perfettamente allineata con i noti e reiterati tentativi (spesso riusciti) di vari amministratori pubblici polticizzati di asservire totalmente la P.A., l’avvocatura pubblica e le difese, alle loro decisioni, del tutto estranee ad una gestione sana ed efficiente della cosa pubblica.
    Le ragioni di tale comportamento ce le dovrebbe spiegare l’estensore.
    Sarebbe forse curioso sapere, per trasparenza, quale sia il concorso superato e la pregressa esperienza lavorativa dell’estensore.
    Era un dipendente pubblico? Aveva un ruolo specifico che ha ritenuto leso e mortificato dalla pubblica avvocatura’? Ciò giustifica una simile vendetta!?
    Gli avvocati pubblici hanno certo superato almeno un concorso pubblico ed in molti casi due e non hanno niente di cui vergognarsi, diversamente da quanto si lascia intendere in sentenza.
    Non che l’aggressione alla P.A. sia un fatto nuovo, tenendo conto dei provvedimenti legislativi che, negli anni, hanno totalmente asservito la pubblica dirigenza al potere politico (con buona pace della separazione fra politica e geztione amministrativa), ma, questa volta, a mio giudizio, il giudice ha superato il politico!
    Cosa si vuole ottenere è evidente: difese ed incarichi interni ed esterni controllati dal vertice politico!
    Bella cosa! Complimenti vivissimi per l’efficienza ed il risparmio ottenuti!!!
    Non esiste avvocato pubblico che non conosca le diverse decisioni giurisprudenziali sul punto, tanto meno quelle della giurisprudenza di legittimità, e, di conseguenza, non v’è giustificazione alcuna per quanto si legge in sentenza.
    Vi sarà, mi auguro, un provvedimento legislativo che introduca una responsabilità civile (vera) per la magistratura!
    Sarà il caso,ciascuno per la sua parte, che l’avvocatura tutta rappresenti al Parlamento questa necessità ed urgenza!? E parimenti, non comprendo cosa ancora attendiamo come avvocati a porre mano a proposte al Parlamento che tendano a riformare le incompatibiltà tra incarichi esterni del magistrato amministrativo e la sua permanenza nei ruoli giudicanti!! Il Ministro Brunetta e tutti i politici, di ogni schieramento, prendano iniziative adeguate.
    L’avvocatura saprà leggere e valutare chi si muoverà politicamente nella giusta direzione.
    Ritengo, in definitiva, che occorra scuotersi!
    E’ una dichiarazione di guerra, immotivata quanto pericolosa e ad essa l’avvocatura tutta è chiamata a rispondere, pena la sua rapida estinzione.
    Cordialmente. Luca

  3. CARMEN MOSCARIELLO scrive:

    caro collega, sono una di quelli che hanno scelto il “comodo rifugio dell’avvocatura Inps” e nel tuo commento ho trovato le stesse osservazioni che mi sono venute in mente quando ho letto la sentenza del Tar.
    L’indignazione di un avvocato di altro ente pubblico diverso dall’Inps e che non è stato parte del giudizio in questione mi conforta nel ritenere che la sentenza è oggettivamente censurabile ed oltragiosa.
    spero che si riesca a trovare un adeguato rimedio, anche se non nutro molta fiducia nel Consiglio di Stato.
    un saluto ed ancora grazie per le tue parole.
    Carmen

  4. Salavatore scrive:

    ha ragione il berlusca, certi magistrati sono pazzi e geneticamente diversi mi chiedo se all’estensore di questa sentenza (pubblico dipendente) non si possa comminare il licenziamento senza preavviso per giusta causa

    http://archiviostorico.corriere.it/2004/gennaio/26/Accuse_magistrati_Csm_contro_Berlusconi_co_9_040126014.shtml

  5. lavoratore vero scrive:

    Lavoro in un ente pubblico e so quanto e come lavorano gli avvocati “para” statali. Ha ragione Brunetta (se ancora non l’ha detto):
    ANDATE A DISOSSARE ZOLLE DI TERRA…..

    Invero, caro signor “lavoratore vero”, non si dice “disossare” la terra, bensì “dissodare” il terreno. Con il termine “disossare” si intende, infatti, “Togliere le ossa a un animale macellato o a una sua parte: disossare il pollo; Estensione, togliere il nocciolo da un frutto”.
    Immagino che se al concorso (ove Lei lo abbia mai sostenuto per davvero) che è servito per farLa entrare nei ruoli di un’Amministrazione pubblica fosse capitato qualcosa di simile Lei starebbe sicuramente (per utilizzare una Sua espressione) a “disossare le zolle di terra”. Ha proprio ragione Brunetta: gli analfabeti che sono a carico del bilancio pubblico sono braccia tolte all’agricoltura.
    Saluti.
    Rodolfo Murra

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