Elezioni forensi: la storia di un regolamento bulgaro, della cocciutaggine degli avvocati e della perdita di pazienza del TAR

Elezioni forensi: la storia di un regolamento bulgaro, della cocciutaggine degli avvocati e della perdita di pazienza del TAR

 

 

La legge di riforma dell’Ordinamento forense è stata approvata il 31 dicembre del 2012 (fu l’ultimo provvedimento di quella legislatura, varato in piena notte). Si attendeva da tanti anni, la legge (n. 247/12), visto che la precedente risaliva al 1933. Il testo, concertato con il CNF e con l’OUA, abbraccia la quasi totalità della materia dell’ordinamento professionale, compreso il tema del rinnovo dei Consigli dell’Ordine. Per gran parte degli istituti è prevista l’emanazione di apposito regolamento ministeriale, come per l’appunto per il momento democratico delle elezioni per il citato rinnovo. Proprio in attesa di questo regolamento i Consigli in carica sono stati prorogati di un altro anno.

Con Decreto del Ministero della Giustizia 10 novembre 2014, n. 170, è stato approvato il “Regolamento sulle modalità di elezione dei componenti dei consigli degli ordini circondariali forensi, a norma dell’articolo 28 della legge 31 dicembre 2012 n. 247”.

L’art. 28 comma 3 della legge recita in modo lapidario: “Ciascun elettore può esprimere un numero di voti non superiore ai due terzi dei consiglieri da eleggere, arrotondati per difetto”. La ratio della disposizione è quella di impedire che un Consiglio sia governato da una maggioranza bulgara, favorendo al contempo la tutela delle minoranze (la stessa logica che da anni si segue per eleggere i rappresentanti dei territori al Congresso nazionale).

Di questo principio, logico prima che ancor giuridico, hanno fatto strame i tecnici che assistono il Ministro Orlando a Via Arenula. Il Regolamento, in sostanza, consente il voto di una intera lista anche quando i relativi componenti siano di numero pari a tutti gli eleggibili.

La Commissione di Giustizia del Senato, chiamata ad esprimersi sullo schema di regolamento, ha reso la seguente riserva: “si segnala l’opportunità di prevedere una modalità di votazione che garantisca non solo la tutela tendenzialmente paritaria dei generi, ma anche la garanzia delle minoranze, intese quali espressioni delle liste che non conseguono la vittoria elettorale”. L‘articolo 9, comma 5, non sembra conforme a tale disposizione, laddove prevede che, sia pure nella sola ipotesi di voto destinato ai due generi, «le preferenze espresse possono essere pari al numero complessivo dei componenti da eleggere nel consiglio, fermo il limite massimo dei due terzi per ciascun genere».

Nonostante queste acute critiche, il testo del Regolamento è passato così come formulato.

La normativa di rango secondario afferma, infatti, senza tema di smentita, che è possibile per il singolo elettore votare per tutti i componenti di una sola lista, pari al numero totale dei membri da eleggere: ciò si evince sia dall’art. 7, comma 2 (“le liste possono recare le indicazioni dei nominativi fino ad un numero pari a quello complessivo dei consiglieri da eleggere”) sia dai commi 2 e 5 dell’art. 9 (“ogni scheda elettorale … contiene un numero di righe pari a quello dei componenti complessivi del consiglio da eleggere” … le preferenze possono essere “espresse in misura pari al numero complessivo dei componenti del consiglio da eleggere”).

Questo impianto regolamentare confligge indubbiamente con la legge, che come detto mira invece a favorire una rappresentanza istituzionale composta da una maggioranza e da una minoranza (sebbene tali concetti, in ambito forense, siano storicamente privi di significato, tranne forse che a Roma dove la politica forense, da un ventennio a questa parte, è stata avvelenata dal protagonismo di qualche singolo prepotente).

Il contrasto è stato denunziato in una serie di ricorsi proposti dinanzi al TAR del Lazio (strano destino quello degli Avvocati, che per tutelare le vicende dei loro ordinamenti professionali sono pure essi costretti a ricorrere ai tanto vituperati giudici….). La maggioranza degli Ordini, pur avendo già indetto le elezioni, ha così deciso di differirne la data all’esito del pronunciamento del giudice amministrativo (decisione di buon senso, che evita almeno oneri oggettivi). Non Roma.

Roma ha infatti deciso inspiegabilmente di tenere ferma la data del 14 gennaio come primo giorno di espressione del voto nonostante che lo stesso Ministero (conscio verosimilmente degli errori commessi in sede di stesura del Regolamento) abbia consigliato vivamente (con nota formale della vigilia di Natale) di differire le operazioni elettorali all’esito della pronuncia del TAR.

Tanto ha tenuto duro – incomprensibilmente – l’Ordine di Roma, da costringere il presidente del TAR Lazio a ritornare sui propri passi: egli aveva infatti dapprima negato la concessione di misure cautelari qualche ora prima di Natale, fissando la data dell’udienza camerale appunto al 14 gennaio, forse perché confidava sul fatto che i consiglieri capitolini avrebbero differito le elezioni, e poi con decreto n. 6 del 7 gennaio (richiesto perchè appunto il Coa romano stava andando avanti con la procedura infischiandosene di tutto e di tutti) ha sospeso gli effetti del Regolamento ministeriale (e degli atti conseguenti) rovinando la befana appena fatta a chi sperava di forzare egualmente la mano.

E’ stato detto che l’attuale Ministro della Giustizia, che ha sottoscritto il decreto, sia persona disposta ad “ascoltare” l’Avvocatura (lo ha fatto finanche troppo bene, forse, proprio nel caso dell’Ordine di Roma, visto che una corposissima relazione ispettiva del C.N.F., che concludeva per la richiesta di commissariamento, è rimasta per mesi ad impolverarsi sui tavoli del dicastero, e quando – solo a seguito di una interrogazione parlamentare – il faldone è stato riesumato, si è detto dal Ministro che i fatti accertati, seppur gravi, erano oramai …. risalenti nel tempo…: sic!): bene, qui non si tratta di ascoltare nessuno, se non la legge, espressione del popolo sovrano.

8 gennaio 2015

PS In data 13 giugno 2015 il TAR del Lazio, I Sez., con sentenza n. 8334, ha annullato il Regolamento ministeriale perché in contrasto con lo spirito della legge che nello stabilire il numero massimo di voti che ciascun elettore può esprimere, introduce un’ipotesi di voto limitato, ossia conferisce a ciascun elettore il potere di esprimere un numero di preferenze inferiore al numero di candidati da eleggere. Conformemente a quanto ritenuto in dottrina e in giurisprudenza, tale scelta del legislatore è finalizzata alla tutela delle minoranze o, comunque, all’effetto di consentire una più ampia e pluralistica rappresentanza all’interno dell’organo eligendo”.

Esattamente quanto, in tempi non sospetti, avevo sostenuto, definendo “bulgaro” un testo regolamentare che calpestava in modo grossolanamente palese la ratio fin troppo chiara della legge.

 

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