LE BUCHE DI ROMA

LE BUCHE DI ROMA

Quello del pietoso stato del manto delle strade di Roma è un argomento che i cittadini conoscono bene. Tutti (pedoni, motociclisti, automobilisti) prima o poi subiscono un danno dalle sconnessioni dei marciapiedi e delle strade e se le richieste di risarcimento sono tutto sommato contenute (se ne contano circa duemila l’anno) è solo perché il grado di attenzione degli utenti delle pubbliche vie, raffinandosi col tempo e con l’esperienza, è diventato massimo.

L’argomento non è affatto nuovo, né è peraltro esclusivo di Roma.

Non è nuovo – da un lato – perché, ad esempio, già nel 1935 (epoca in cui i ricchi giravano in calesse e di veicoli a motore se ne contavano sulla punta delle dita di una mano), il Capo dell’Avvocatura capitolina scriveva al Sindaco: “Altro problema delicato ed urgente è quello relativo alla prevenzione ed all’accertamento dei sinistri stradali. Si è prospettata l’opportunità e convenienza di organizzare un servizio di vigilanza e di rilevazione delle anomalie delle strade, allo scopo di prevenire per quanto possibile i sinistri”.

Non è esclusivo di Roma – dall’altro – in quanto, come dimostrano le cronache attuali, il Sindaco di Verona (il leghista Tosi) sta pensando di introdurre il limite di velocità di 30Km/h sulle strade comunali flagellate da voragini e crateri che il Comune non riesce ad eliminare.

Ma come è possibile che a questo fenomeno non ci sia soluzione? Forse è il caso di guardare, prima di tutto, alle cause, per poi pensare ai rimedi.

Per partire dalle cause mi è congeniale far cenno ad un’esperienza personale (di tipo professionale) che ho maturato una decina di anni fa. Un solerte e diligentissimo (ve ne sono pochi, in realtà, così) dirigente tecnico addetto ad un Municipio aveva spontaneamente iniziato un’operazione di mappatura delle strade di sua competenza, proprio allo scopo di effettuare in modo costante il monitoraggio e la rilevazione delle anomalie delle stesse. Un giorno alla settimana si girava, a turno, le vie del Municipio e riempiva una tabella dove aveva indicato il grado di rovina della strada. Dopo di che trasmetteva il report alla ditta appaltatrice incaricata di effettuare i ripristini, commissionava i lavori, andando poi a verificare, il giorno successivo la ricezione dell’avvenuta operazione, la qualità dell’intervento effettuato.

Ebbene una mattina egli si è imbattuto su una strada a scorrimento veloce che risultava interamente “rifatta” 4 anni prima: per interamente rifatta non intendo riferirmi alla sostituzione del c.d. tappetino di usura, cioè lo strato superficiale del manto stradale dello spessore di qualche centimetro che viene steso dopo che è stato “grattato” ed asportato quello vecchio, ma al “binder”, ovverosia quel tipo di conglomerato a basso tenore di bitume e con elementi lapidei non molto grossi, che si adopera come strato di base per pavimentazioni su strade a traffico pesante.

L’ingegnere si accorse che, praticamente, della strada era rimasto il tracciato, ma l’asfalto non c’era più. Mi chiamò e mi pregò di fare un sopralluogo. Andai e verificai di persona: il fondo stradale era praticamente di pozzolana ben battuta: qua e là, sovente ai margini delle carreggiate, si rinveniva qualche grosso pezzo di bitume, che rappresentava pure un evidente pericolo per gli utenti. Come fosse stato possibile che a distanza di pochi anni dal suo completo rifacimento quella strada fosse ridotta in condizioni così miserevoli restava un mistero. Il dirigente aveva necessità di intervenire per evitare il protrarsi della situazione di pericolo ma, così facendo, avrebbe disperso la prova del fatto che la strada, oggetto di rifacimento totale pochi anni prima, era diventata una vera e propria carrareccia.

Decisi di effettuare un A.T.P. (accertamento tecnico preventivo), presso il Tribunale di Roma, pregando l’ingegnere di pazientare un poco, ma invitandolo nel frattempo a fare due cose: collocare evidenti segnali di pericolo sulla strada (di avviso a chi la percorreva) ed a rintracciare il fascicolo concernente l’incartamento degli ultimi lavori di rifacimento appaltati.

Il Tribunale incaricò un perito, che si recò in loco: fece rilievi, scattò fotografie, prese dei campioni di quel poco di bitume che si poteva raccattare ai lati delle carreggiate, effettuò una decina di carotaggi con un attrezzo singolare. Un cubetto di asfalto attirò in particolare la sua attenzione: lo scrutò attraverso le spesse lenti bifocali, lo annusò, lo palpò più volte. Sembrava avesse trovato un tartufo. Scosse più volte la testa.

Il consulente del Tribunale mandò il reperto ad un laboratorio specializzato di Bologna, conosciuto – pare – in tutta Europa. Nel frattempo il Dirigente del Municipio aveva rinvenuto il fascicolo dei lavori: effettuati dalla soc. Axe, il cui titolare era il rampollo di una nota famiglia abruzzese (per decenni, da quella parte d’Italia, sono arrivati a Roma i manovali dei lavori stradali), ditta che all’apparenza dava l’idea di essere un soggetto alquanto scalcinato, come tanti del resto in quel settore. Il geometra comunale, quello che aveva firmato il certificato di collaudo di quei lavori, era stato nel frattempo collocato in pensione.

Arrivarono in breve i responsi del laboratorio bolognese sui reperti sottoposti alla sua cognizione: uno scandalo. Emerse che il materiale usato dalla Axe era quello della peggiore qualità esistente sul mercato (ovviamente neppure paragonabile a quella indicata nel capitolato speciale!), rigenerato peraltro con tecniche ultra-economiche non più in uso da anni e posato senza la perizia necessaria per poterlo far sedimentare prima di incollarci sopra il tappetino usurante. La ditta appaltatrice aveva fatto un lavoro schifoso, con la compiacenza innegabile di chi gli avrebbe dovuto contestare la circostanza.

La causa di merito, dopo l’A.T.P., si è conclusa con una sonora condanna al risarcimento dei danni: risarcimento che il Comune di Roma non ha potuto incassare mai, perché la Axe nel frattempo è fallita con un mucchio di debiti. Il rampollo abruzzese intanto aveva aperto e chiuso, con la velocità della luce, altre imprese di lavori stradali. Sempre dotate di una sola carriola e di una pala. Del geometra comunale, che in sede di redazione del certificato di regolare esecuzione aveva sottoscritto che i lavori erano stati fatti a regola d’arte, non si è mai saputo nulla: mi auguro sia rimasto paralizzato dopo essere caduto su una buca stradale e che la mazzetta che ha intascato per tradire il proprio datore di lavoro ed i cittadini romani non gli sia stata sufficiente per comprarsi tutti i farmaci di cui avrà bisogno nella sua  vecchiaia (che auspico lunghissima).

Torniamo, dopo il racconto di questo emblematico episodio, alle cause dei crateri. La sorveglianza e la manutenzione delle pubbliche strade sono affidate ad Imprese private (spesso inadeguate) a mezzo di appalti al (massimo) ribasso, gestiti dai Municipi. La sorveglianza impone un obbligo di vigilanza dell’eventuale presenza di pericoli, intervenendo mediante transennamenti, chiusure, ecc., in via provvisoria e d’urgenza; la manutenzione, invece, comporta l’esecuzione di interventi di ripristino funzionale del manto stradale (rattoppi).

I contratti prevedono penali (a mia memoria mai applicate da alcuno) in caso di ritardi nell’esecuzione delle opere ovvero in ipotesi di inadempimento o di lavorazioni non a regola d’arte. Si può ovviamente, in presenza di reiterate contestazioni, giungere alla risoluzione del contratto, con l’aggiunta del risarcimento dei danni. Sono vent’anni che mi occupo di difendere in giudizio il Comune di Roma e non mi è mai capitato di affrontare simili tematiche: segno evidente che nessun Municipio contesta mai nulla alle Imprese appaltatrici dei lavori stradali.

Le Imprese sono obbligate a garantirsi con primaria compagnia di assicurazione: se per la manutenzione trovano compagnie disposte (seppure con franchigie piuttosto alte) a stipulare la polizza, per la sorveglianza le assicurazioni rifiutano la copertura. Il che espone questi imprenditori ad un rischio enorme, assai più elevato di quanto essi possano economicamente sostenere.

Il problema, dunque, è quello dei controlli sulle esecuzioni a regola d’arte delle attività oggetto di appalto: ebbene i controlli sono inesistenti. Un po’ per carenza di uomini, molto più spesso per ignavia o – peggio – corruzione (grado altissimo, purtroppo, negli Uffici tecnici dei municipi). Sì, la corruzione. Quel collaudatore di cui parlavo prima non poteva non essere corrotto, quando nel suo certificato ha scritto “tutto va bene madama la Marchesa”, se – poi – la strada si è liquefatta dopo pochi mesi. Nell’estate del 2013 sono stato nominato Direttore del Municipio X (di Ostia, per intenderci), quello dove il Dirigente dell’ufficio tecnico è stato indagato per una miriade di reati (si è messo volontariamente in pensione, coincidenza singolare, appena un mese dopo la pubblicizzazione delle accuse gravissime). Ebbene in quell’Ufficio sono addetti tecnici che abitano ad Ostia e che lavorano lì, ininterrottamente, da 15/20 anni, senza mai alcuna turnazione (neppure ora, che la legge anticorruzione lo impone espressamente). La stabile e prolungatissima permanenza in un Ufficio tecnico, a contatto continuo con imprenditori ed appaltatori, porta inevitabilmente al sospetto di contiguità inopportune, di affievolimento dei controlli, di amicizie e rapporti incompatibili con l’applicazione di sanzioni. Il tentativo di applicare questi dipendenti al Casilino, all’Aurelio, onde far rigenerare il tessuto burocratico dell’Ente, si rileva sistematicamente inutile: siamo in Italia, ed interviene la politica.

Altro gravissimo profilo del problema è quello degli scavi compiuti dalle aziende di pubblico servizio (Acea, Italgas, Fastweb, ecc.). La prima neppure paga l’occupazione di suolo pubblico per norma inserita nel contratto di servizio. Ebbene queste società (particolarmente sponsorizzate, ovviamente, in sede politica) fanno il bello ed il cattivo tempo, riconsegnando quando vogliono il cantiere (che poi è il suolo pubblico) senza che nessuno gli ìntimi di rispettare i tempi stabiliti nel titolo autorizzativo e, soprattutto, “come” vogliono: infatti il ripristino degli scavi avviene sempre (a mezzo di ditte sub appaltatrici, sempre sull’orlo del fallimento) in modo grossolano ed imperfetto, cagionando danni agli utenti della strada.

Se quelle descritte sono, in linea di massima, le cause del fenomeno, occorre vedere se lo si vuole  affrontare in modo serio e coscienzioso. Se così è, occorre allora, prima di assumere ogni altra iniziativa: a) incrementare e razionalizzare i controlli sulle attività di manutenzione eseguite, con monitoraggio scientifico ed informatico (con analisi delle sanzioni irrogate, contestazioni mosse, ecc.); b) far turnare i tecnici (geometri, ingegneri, architetti) dei Municipi, in ossequio al Piano anticorruzione, in modo da evitare radicamenti stabili sul territorio; c) affidare la sorveglianza delle attività delle stesse Imprese e delle Aziende concessionarie dei servizi o all’agente di Polizia Locale presente nel quartiere, o all’operatore dell’Ama, i quali (vivendo il territorio in modo diuturno) possono relazionare settimanalmente alla UOT Municipale; d) creare una cabina di regia presso l’Amministrazione centrale che monitorizzi l’intero panorama degli appalti di manutenzione; e) sopprimere il metodo dell’aggiudicazione al massimo ribasso dei relativi appalti.

One Response to “LE BUCHE DI ROMA”

  1. una cosa che ricordo dai miei studi sugli appalti pubblici è che sotto una certa cifra il collaudo non è necessario, basta un certificato di regolare esecuzione,, sicuramente meno probante o vincolante per chi lo redige,,
    e infatti potete vedere tutte le piazze e marciapiedi di roma fatti in lastre di pietra (basalto credo) si rompono dopo 6 mesi, 1 anno, 2 massimo massimo: Piazza Mastai appena rimessa a posto dopo pochi anni dalla sua pedonalizzazione, Piazza San Cosimato, poco dopo la ristrutturazione a seguito di concorso,, infiniti marciapiedi,,, una vera rapina!!!

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