Avvocati part-time? No, grazie.

Avvocati part-time? No, grazie.

Le sezioni Unite della Corte di cassazione, con sentenza n. 27266 depositata il 5 dicembre 2013, hanno ritenuto pienamente legittima la normativa nazionale che impedisce ai dipendenti pubblici l’esercizio a tempo parziale  della professione di avvocato.

Com’è noto la legge n. 339/2003 ha reintrodotto il divieto di esercizio della professione forense per i dipendenti pubblici part-time. Ma il tema era stato oggetto, nell’ultimo decennio, di interventi altalenanti da parte del Legislatore perché inizialmente la legge consentiva, in un’ottica di liberalizzazione, che un dipendente pubblico (laureato in giurisprudenza) un giorno andasse in ufficio (magari a mettere timbri) e l’altro, invece, potesse indossare la toga. Ne ho conosciuti di centauri. Ad un certo punto una norma ha imposto a questi ibridi signori di optare: o di qua o di là, lasciando un periodo di tempo per esercitare la scelta. Per poi chiudere definitivamente i cancelli.

Un signore dipendente del Ministero dei Trasporti, ed in regime di part time presso la propria Amministrazione (ove si recava un solo giorno a settimana), si era avvalso proprio della disposizione di cui all’articolo 1, comma 56, della legge 23 dicembre 1996 n. 662, che consentiva (sciaguratamente, a mio modo di vedere) la doppia attività. A seguito dell’entrata in vigore della legge 25 novembre 2003 n. 339 di modifica della precedente, il funzionario manifestava la sua intenzione di continuare a mantenere il rapporto di pubblico impiego, esercitando nel contempo anche la professione di avvocato. In relazione a  questa decisione del dipendente il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Rieti, ritenendo sussistere a questo punto un’incompatibilità, ordinava la cancellazione dell’impiegato dall’albo. L’impiegato ministeriale impugnava la decisione davanti al Consiglio nazionale forense con poco successo. Non finiva, però, qui. Contro questa pronuncia sfavorevole il pubblico dipendente part-time faceva ricorso alla Cassazione, con un’articolata argomentazione.

Le sezioni Unite della Suprema Corte hanno pure esse ravvisato una situazione di incompatibilità per il ricorrente. Senza voler riprodurre i complessi passaggi motivazionali è sufficiente leggere il seguente brano della decisione, che compendia il tutto:  “è comunque decisivo rilevare che, a seguito di ordinanza del Giudice di Pace di Cortona del 19-6-2009, che aveva rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale relativa al possibile contrasto della legge n. 339 del 2003 (nella parte in cui reintroduce il divieto di svolgimento della professione forense per i pubblici dipendenti part-time) con i principi comunitari in tema dl tutela della concorrenza, libertà di stabilimento, legittimo affidamento e protezione dei diritti quesiti alla luce delle direttive 77/249/CE e 98/5/CE, la suddetta Corte di Giustizia dell’unione europea con la già richiamata sentenza dei 2-12-2010 ha ritenuto che gli artt. 3 n. 1 lett. g) CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione dl avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione dall’albo degli avvocati.  In definitiva il ricorso deve essere rigettato”.

E’ verosimile credere che questa decisa presa di posizione della Cassazione possa contribuire a porre fine in modo tombale ad un problema che ha impegnato non solo il Legislatore ma anche l’Avvocatura: quest’ultima costretta a combattere contro finti provvedimenti sulle liberalizzazioni delle professioni. Ma è proprio il caso di dire che “di doman non v’è certezza” perché lo stesso ministerial-avvocato aveva già, precedentemente alla decisione dei giudici di Piazza Cavour, proposto ricorso alla Corte di giustizia per i diritti dell’uomo. Insomma, la storia infinita del legal-travet!

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