Chiacchierate serafiche, al tramonto

Chiacchierate serafiche, al tramonto

10) Quella doppia “g”  (sulla mediazione obbligatoria) …..

9) L’esperto (anonimo) in materia di enti pubblici

8)  La parentopoli dell’Ordine di Roma

 1) Sono solo CANZONette

2) Una storia dolorosa (ma quanti soldi risparmiati)

3) Addio, caro Cicerone!

4) Twitter, un social network utile anche agli Avvocati? NO GRAZIE!

5) Sull’orario delle cancellerie. Guarda l’asino che vola! (e la Corte d’appello riduce a sua volta…)

6) Mobiliare o Immobiliare: questo è il dilemma!

7) Quando si predica bene ma si razzola male (a proposito dei proggggetti)

10) Quella doppia “g” (sulla mediazione obbligatoria) ….

Il 24 ottobre 2012 l’Ordine degli Avvocati di Roma ha fatto partire una mail diretta ai 24.000 iscritti dal titolo (testuale): “Illeggittimità costituzionale della mediazione obbligatoria”. La mail si limita a dare conto dell’emanazione, da parte dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale, di un avviso con il quale si dava comunicazione dell’esito dell’udienza del giorno precedente (la sentenza dei giudici costituzionali, ovviamente, non era ancora stata pubblicata ma è noto che la ragione della declaratoria di illegittimità riposa solo sul c.d. eccesso di delega).

I due firmatari della mail, cioè il Presidente ed il Consigliere Segretario, concludevano la comunicazione con queste osservazioni: “Siamo certi che questa notizia rinsalderà la fiducia di tutti i Colleghi nelle Istituzioni e nella tenuta democratica e costituzionale del nostro Paese”.

Debbo dire che la maggior parte dei colleghi con i quali ho scambiato qualche considerazione (non sulla notizia in sé, quanto sulla comunicazione fornitaci dal nostro Ordine professionale di appartenenza) ha notato – con soddisfazione – che l’unico errore lessicale commesso nel titolo è quella orrenda doppia “g”, perché il rischio vero – forte, fortissimo – essendo noi di Roma,  era che il raddoppio potesse anche esserci nel termine “mediazione”, con riguardo alla lettera zeta.

Gli strafalcioni lessicali che taluni avvocati commettono, non solo parlando ma addirittura scrivendo, sono a mio avviso ben più idonei a scuotere la stima che i cittadini normalmente ripongono (o dovrebbero riporre) sulla categoria dei difensori dei loro diritti di quanto non lo possa essere il tentativo del Governo di forzar la mano e di introdurre come obbligatorio un istituto giuridico che il Parlamento aveva inteso solo come facoltativo.

Ma a parte ciò, non comprendo per quali “istituzioni” si dovrebbe rinsaldare la fiducia dei cittadini dopo la sentenza della Corte delle leggi, posto che – ad esempio – anche il Governo stesso (quale organismo incarnante a livello statale il massimo livello del potere esecutivo), che si è reso responsabile del vizio stanato dalla Consulta, è una istituzione (o no?).

Il nostro Paese, poi, non ha rischiato ragionevolmente alcun tracollo, sotto l’aulico profilo (enfatizzato oltre misura nella mail dell’Ordine forense romano) della “tenuta democratica”, dall’esistenza della mediazione ancorché erroneamente intesa come obbligatoria. Le vicende delle collusioni tra pezzi dello Stato e la mafia, gli episodi di corruzione di dirigenti e funzionari pubblici sempre più ricorrenti e finanche “tollerati” dalla magistratura (che spesso si fa prescrivere in mano azioni punitive doverose, come ha giustamente notato di recente la testata “Il Messaggero” nell’edizione del 7 novembre scorso, parlando di 113 vigili urbani “salvati” dall’inutile decorso del tempo rispetto alla più grande inchiesta che li riguardava), la vera e propria persecuzione (attuata finanche attraverso gogne mediatiche) di personaggi scomodi ai poteri forti, costituiscono tutti – questi sì – fenomeni di veri e proprio attentati “alla tenuta democratica del nostro Paese”.

La mediazione obbligatoria, avversata dal ceto forense per le ragioni più disparate (non ultima quella meramente corporativa, cavalcata – senza neppure celarlo più di tanto – da quel caratteristico collega meridionale diventato oramai il contrario di quello che dovrebbe essere un “Avvocato”) non avrebbe potuto arrivare a tanto; va bene, cioè, la demagogia di una parte dell’Avvocatura (che si appresta a partecipare all’ennesimo ed inutile congresso nazionale), passi l’enfatizzazione (la doppia zeta va solo una volta, eh?) di chi fa politica forense in modo professionistico, si accetti pure il bisogno di chi, ricoprendo cariche di rappresentanza, deve tentar di aizzar le folle: ma c’è un limite a tutto, che è quello della ragionevolezza. Non attribuiamo conseguenze nefaste – sul piano della civiltà giuridica e sull’assetto democratico di un Paese – a fenomeni che non ne possono, oggettivamente, avere. Insomma: cà nisciuno è fesso!

9) L’esperto (anonimo) in materia di enti pubblici

La vicenda dell’innegabile conflitto di interessi in cui è caduto Vaglio sta assumendo contorni preoccupanti, non tanto per le conseguenze che la nomina di un suo socio in affari (veste, questa, colpevolmente sottaciuta) comporterà sulla credibilità dell’Istituzione forense romana, quanto per la degenerazione che sta producendo nel confronto “politico” tra le varie componenti dell’Avvocatura capitolina.

In una delle sue tante (e forse troppe) disperate difese, pubblicate sul suo sito, Mauro Vaglio giunge a dire, testualmente: “ho anche ricevuto un parere da un esperto di altissimo livello in materia di enti pubblici, che però ha chiesto di rimanere anonimo per evitare possibili ritorsioni”. Il testo del parere è allegato alla comunicazione: mi incuriosisco, lo apro, lo leggo, e con tutta la franchezza non mi sembra che il documento abbia né le fattezze di un “parere” (cioè il frutto di un serio ed approfondito sforzo ermeneutico sul piano giuridico) né mi appare – e lo dico da modesto Avvocato al servizio di una Pubblica amministrazione da tanti anni – scritto da un luminare “in materia di enti pubblici” (ammesso che detta materia esista per davvero). Ma il punto non è questo.

Giungo a sospettare che non sia scritto da nessun “esperto”, men che mai avvocato, perché quella sottolineatura, di voler continuare a rimanere “anonimo”, non si confà ad un rappresentante del Foro.

Ne parlavo stamane, al Palazzaccio, con un collega galantuomo, sensibile ed acuto. Mi ricordava che noi siamo la categoria di coloro che assumono – necessariamente, spettando solo a noi ed a nessun altro – la difesa processuale di delinquenti, malfattori, camorristi, mafiosi, terroristi. Questa difesa, che deve essere garantita a tutti (il che non vuol dire, ovviamente, tutela dell’impunità), può portare un pregiudizio a chi l’assume. Ed a volte lo arreca di sicuro. Ma un avvocato non può temere “ritorsioni”, qualsiasi esse siano: deve portare la propria toga con coraggio, con fierezza, con orgoglio. Quel collega rammentava che, al di là di esempi luminosi di dignità forense, noi siamo il popolo che incarna l’audacia e l’ardimento: “Salvo D’Acquisto” – mi diceva – si immolò a pochi chilometri da qui”.

Ha ragione da vendere, quel collega. A leggere ciò che ha chiesto “l’esperto di altissimo livello”, Fulvio Croce e Giorgio Ambrosoli, tanto per fare qualche nome, si chiederebbero a cosa è valso il loro sacrificio e se questi di oggi sono, davvero, i loro “eredi”.

 8) LA PARENTOPOLI DELL’ORDINE DI ROMA

Il Consigliere Segretario di un Ordine professionale è responsabile, tra le altre cose, dell’organizzazione amministrativa dell’Ente (salve deleghe specifiche che il Consiglio può conferire ad uno o più Consiglieri) e della gestione delle risorse umane legate da rapporto di lavoro con l’Istituzione. Quando son diventato Segretario io, dell’Ordine degli Avvocati di Roma, ho promesso che non avremmo più instaurato rapporti di lavoro con parenti di dipendenti in servizio: prassi purtroppo avviata da alcuni precedenti Segretari verosimilmente sotto la pressione di taluni Presidenti. Ho sempre creduto che la presenza di genitori e figli all’interno di un ambiente di lavoro pubblico (a meno che entrambi non siano vincitori, con merito, di concorso) nuoccia alla serietà ed alla credibilità del datore medesimo, determinando malumori tra il personale non “beneficiato”.

Naturalmente questa decisione mi ha arrecato non poche ostilità con coloro i quali, dipendenti dell’Ordine, prima erano stati abituati a vedersi assumere, con contratti di lavoro a tempo (ma spesso prorogati o rinnovati) i propri figli, fratelli, cognati.

Io ritengo che i dipendenti dell’Ordine siano persone per bene e costituiscano una risorsa preziosa per l’Istituzione: tanto che a mia memoria sono stato l’unico rappresentante della storia dell’Ordine a dedicare loro (sul Foro Romano n. 5/6 del 2010) un editoriale di elogio. Tutto ciò non comporta, però, che il personale stesso debba ottenere (oltre ad una retribuzione affatto indecorosa, ai pacchi-dono di Natale e Pasqua, alle borse di studio per i figli in età scolare, ed altri numerosi benefits), dei vantaggi illegittimi quali possono essere il reclutamento nei ruoli consiliari – in stile assolutamente nepotistico – dei propri parenti.

Ovviamente, assumere i figli od i fratelli dei dipendenti comporta una certa gratitudine da parte loro e, quindi, un indubitabile vantaggio per chi è chiamato ad amministrare; viceversa, assumere atteggiamenti impopolari, come l’essere contrario a queste prassi, determina una oggettiva contrarietà in coloro i quali, poi, sono chiamati ad eseguire gli ordini.

Ma non me ne è mai fregato nulla e, quindi, non ho fatto piaceri di questo genere ad alcuno.

Quando è stato bandito un concorso pubblico per la copertura di 12 posti di Area B (diplomati), la domanda di partecipazione l’ha fatta anche la tata dei miei figli. Io sono stato chiamato, dal Consiglio, a presiedere la Commissione esaminatrice e quella ragazza non ha superato neppure la prima prova scritta. Come, del resto, i figli di quei dipendenti che avevano fatto domanda. Ciò basta, credo.

Il nuovo Consiglio dell’Ordine romano, insediatosi a febbraio 2012, ha invertito la tendenza ed ha ripristinato – invece – l’antica e “virtuosa” prassi. Tra i trentadue (dico 32!) dipendenti assunti a tempo determinato (chi con la prima scadenza contrattuale al 31 luglio, chi con cessazione del rapporto a fine anno) ci sono 5 parenti di dipendenti in servizio (tre figli e due fratelli, oltre ad un altro figlio di dipendente da poco collocato a riposo: non so se esistano cognati, non potendo riconnettere i loro cognomi a quelli dei dipendenti di ruolo).

Non solo. Se si deve fare compiacenza a qualcuno si assume anche qualche figlio di cancelliere in servizio. E così è stato: figli di cancellieri che lavorano in Corte di cassazione, figli di cancellieri che lavorano al Giudice di Pace.

Il Consigliere Conte, a proposito di uno di questi casi, ha chiesto al Consigliere Segretario se trovava corretto ed opportuno che una ragazza, figlia di una cancelliera addetta al Giudice di Pace, fosse stata avviata al servizio, da esso Segretario, proprio nel posto dove lavora la madre (cfr. Verbale dell’Adunanza del 22 maggio 2012, sul sito web dell’Ordine). Il Segretario è apparso cadere dalle nuvole rilevando peraltro che i cognomi tra le due donne erano …. diversi (in Italia le ragazze portano il cognome del padre, e le donne sposate sul lavoro conservano quello loro, non assumendo cioè quello del marito).

Il personale alle dipendenze dell’Ordine degli Avvocati è costato, nel 2011 (tra stipendi, contributi ed oneri per lavoro straordinario) meno di due milioni di Euro. Su un bilancio di poco più di cinque milioni di entrate l’anno si tratta, da sempre, della voce di spesa più cospicua che l’Ente sostiene. Ma il Consiglio – questo nuovo Consiglio – ha proposto di approvare un bilancio preventivo, per l’anno 2012, che per il personale prevede OLTRE TRE MILIONI DI EURO DI SPESA!! Un incremento mostruoso, rispetto al solo anno precedente, che non trova giustificazione alcuna in un momento di così straordinaria e mondiale crisi economica.

E pensare che, motivando esclusivamente con l’esigenza di risparmiare (sic!!), il nuovo Consiglio ha deciso di revocare l’intero concorso in essere (quello di cui parlavo sopra, per la copertura di 12 posti di Area B, che era arrivato agli orali), con delibera assunta nell’Adunanza del 12 aprile. Da un lato, cioè, si revoca una procedura selettiva, pubblica e trasparente, per ragioni economiche, dall’altro si assumono 32 dipendenti non di ruolo (sfondando di molto e senza ritegno il limite dei 42 posti in dotazione organica vigente!) con procedura informale e quanto meno “discrezionale”.

Ho detto queste cose, pubblicamente, all’Assemblea di approvazione del bilancio, svoltasi il 28 giugno scorso: ed uno, in Aula, mi ha maleducatamente interrotto dicendo che “abbiamo cose più importanti cui pensare”. Questo signore, cui evidentemente non importa se il Consiglio spende un milione di euro in più rispetto all’anno prima per fare assunzioni di piacere, non deve pagare i contributi all’Ordine (che quindi non gestisce i soldi suoi), oppure se li paga deve essere ricco, ovvero ha qualcosa che sinceramente mi sfugge. Io credo, invece, che tutte queste cose lui non le sapesse, come del resto non le sanno tanti altri colleghi che sono presi da mille difficoltà quotidiane e sperano che i loro denari siano amministrati, dall’Istituzione forense cui appartengono, in modo oculato e secondo la diligenza del buon padre di famiglia. Ecco: “padre”. Se l’Ordine deve necessariamente aiutare qualcuno, che allora assuma come interinali i figli disoccupati di quei colleghi che versano in stato di indigenza: avremo forse una cortesia in meno dalla cancelliera del Giudice di Pace ma staremmo, probabilmente, più a posto con la nostra coscienza.

 1) Sono solo CANZONette

Ora che il clamore su Giacinto Canzona si è calmato, soprattutto da parte di “Striscia la Notizia” (programma che si è giustamente stupito del fatto che la categoria forense annoveri un tipo del genere, ma che poi ha esagerato nel mestare nel torbido, frantumando le parti intime degli italiani maschi proponendo per dieci giorni di seguito ed in tutte le salse interviste al “giovanotto inventore di bufale”) si può raccontare una storia passata.

Canzona (assurto alle cronache giornalistiche già ai tempi del conseguimento della propria laurea) fu destinatario di un esposto disciplinare, diretto all’Ordine di Roma, firmato da un giornalista, il quale aveva potuto appurare, di persona, che uno degli episodi per i quali l’avvocato romano era diventato “celebre” (quello della suora che spingeva la propria autovettura ad un’andatura indecente su un’autostrada valdostana per andare ad incontrare il Papa), non poteva oggettivamente essere mai accaduto.

Apertasi l’istruttoria, affidata a me, ho effettuato una serie di verifiche all’esito delle quali ho proposto al Consiglio l’apertura di un procedimento disciplinare redigendo ben quattro capi di incolpazione. Il Consiglio approvava senza batter ciglio e deliberava l’apertura ed il giudizio veniva fissato per il giorno 22 luglio 2010.

A dir la verità l’apertura veniva disposta non solo contro il Canzona, ma anche contro la collega che fu inquadrata in più d’una occasione nelle interviste andate in onda su “Striscia la Notizia” (una prima volta definita la “compagna” del giovanotto, un’altra volta no, quella seguente si e poi ancora no). Ebbene il Canzona all’apertura del dibattimento (difendendosi da solo) ha avuto il garbo di scagionare egli stesso la collega, attribuendosi di fatto la responsabilità esclusiva delle vicende contestategli: il COA ha così preso atto che le colpe delle bufale non potevano essere della giovane (e spaesata, in quella sede) avvocatessa mora, e ne ha stralciato la posizione.

Il giudizio si è regolarmente celebrato quel 22 luglio 2010 con la sua contestuale definizione: all’esito della camera di consiglio il Presidente ha letto all’incolpato il “verdetto”.

Com’è noto, non è sufficiente che sia data lettura del dispositivo della decisione, perché questa sia pubblica, in quanto occorre anche il deposito della motivazione.

Nel giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati la stesura della sentenza compete al Consigliere “relatore”, ma la sottoscrizione l’appongono solo il Presidente ed il Segretario dell’Ordine.

Bene. Il relatore, che ovviamente è soggetto diverso dall’istruttore, non potevo essere io (essendo stato, appunto, l’istruttore). Costui, avendo moltissimo arretrato da evadere, si guardava bene dal dare la precedenza a questa stesura, e perdeva tempo. Fece male, perché il caso Canzona non era come tanti altri e sullo stesso si sarebbero potuti accendere i riflettori. Nel frattempo Canzona chiese di potersi trasferire all’Ordine di Tivoli: il trasferimento gli fu negato, perché è impedito cancellarsi o trasferirsi durante la pendenza di un procedimento disciplinare. Ovviamente non fu Canzona a sollecitarne la definizione. Dopo qualche mese, tuttavia, il solerte relatore si decise a sottoporre alle due cariche competenti la sua bozza di sentenza. Quella sì che si sarebbe dovuta portare a “Striscia la Notizia” (ma non avrebbe avuto, ovviamente, l’eco riservato alle interviste a Canzona). Io ed il Presidente, nel leggercela, abbiamo iniziato a ridere, essendo infarcita di refusi, errori lessicali, imprecisioni, ed essendo caratterizzata poi (nella comunque scarna parte motiva) da un copia-incolla di massimette di casi precedenti (certamente non analoghi a quello deciso, in quanto più unico che raro), accozzate insieme senza alcun nesso logico, tanto per riempire qualche riga. Una cosa indecente.

Il Presidente restituiva così all’Ufficio disciplina la bozza, vergando con un pennarello verde la prima pagina, barrata con una grossa X che univa gli angoli opposti del foglio, con la scritta: “NON VA BENE”.

Il redattore, solo dopo qualche settimana (non essendo proprio solito verificare “immediatamente” l’esito riservato ai propri “lavori”), mi ha candidamente chiesto cosa ci fosse che non andasse in quello che aveva scritto. “Hai riletto? – gli ho risposto – Abbiamo evidenziato gli errori, i refusi, le inesattezze, anche di ordine lessicale e grammaticale! Non hai che l’imbarazzo della scelta”.

Il Consigliere promise che avrebbe accertato e, anzi, mi chiese disponibilità di tempo (che io detti, ovviamente) per poter passare in rassegna insieme le cose che non andavano e per emendare adeguatamente il documento. Tuttavia trascorse, inutilmente, molto tempo, senza alcun riscontro.

Poco prima di metà dicembre (2011), mentre mi trovavo sul lago di Como, lessi un quotidiano (locale!!) che parlava dell’ennesima trovata di Canzona: una vecchina aveva lasciato una grande eredità (10 milioni di Euro) al suo gatto (l’erede “Tommasino”), e la notizia l’aveva fornita ovviamente l’ineffabile giovanotto (debitamente menzionato nell’articolo).

Misi mano al cellulare ed inviai un messaggio di testo al Consigliere, che era caduto nel soporifero letargo, allo scopo di risvegliarne l’esigenza di depositare prima possibile la sentenza che riguardava l’incolpato Canzona. Manco per idea. Passarono i giorni e nulla accadeva.

A questo punto il Presidente, verificato l’enorme ritardo che il collega aveva accumulato per scrivere la decisione, gli intimò per iscritto la redazione, assegnandogli un termine perentorio per espletare l’incombente, avvisandolo che in difetto si sarebbe avocato il fascicolo e che avrebbe poi scritto lui personalmente la sentenza. Io, al suo posto, mi sarei mortificato. Ma il termine perentorio passò senza colpo ferire.

Il Presidente, allora, si assegnò il fascicolo, lo estrasse dall’armadio dell’Ufficio disciplina, ed in un battibaleno scrisse la sentenza (nove pagine). La prima, probabilmente, nella storia del Consiglio, in cui, nell’epigrafe, l’estensore risulta essere persona “diversa” dal relatore.

Canzona la sentenza non l’ha impugnata. Il relatore non ha avvertito il minimo disagio per questa inedita vicenda. Nessuno ha sospettato che la volontà di non redigere la decisione dipendesse dal desiderio di “proteggere” il professionista giudicato in sede disciplinare, ma che – invece – il ritardo (diciassette mesi) fosse dovuto a semplice sciatteria, ignavia, indolenza.

Canzona, ottenuto poi il trasferimento (formale) presso il foro tiburtino, ha continuato a farne una dietro l’altra e di lui – a causa della balla della ragazza incinta imbarcata sulla Costa “Concordia” – ha iniziato ad interessarsi (stavolta non come in passato, ma in senso critico e severo) la stampa (e la magistratura). Fortunatamente l’Ordine di Roma, a quel punto, si è trovato “a posto”. Ma non certo grazie a chi avrebbe dovuto svolgere, per tempo, il proprio dovere.

Agli avvocati questa storia interessa poco, lo so (essendo molto più occupati, ad esempio, a combattere la mediazione): ma forse è questo il motivo per il quale tra la categoria ed il Paese “reale” si è creato tutto questo abisso.

 2) Una storia dolorosa (ma quanti soldi risparmiati)

Una delle prime decisioni che assunsi, quando divenni Consigliere Segretario dell’Ordine (il Segretario ha per dovere istituzionale la responsabilità della gestione del personale amministrativo dipendente) fu quella di non ricoprire più i posti vacanti della pianta organica con contratti a tempo determinato stipulati con parenti (di norma figli) dei dipendenti. Era prassi precedente piuttosto costante, invero, quella di affidare questi incarichi a persone legate da vincoli di sangue con il personale in servizio: una sorta di piccola “parentopoli” che a me francamente non piaceva. L’attuale Consiglio ha subito invertito la tendenza posto che il primo chiamato, a marzo 2012, è stato il figlio di una dipendente andata in pensione da poco.

Ma, a prescindere da ciò, debbo dire che il rapporto con il personale consiliare è stato in massima parte, nelle pregresse gestioni, improntato su basi paternalistiche e scarsamente professionali. A mio avviso ciò ha ingenerato la falsa percezione che si fosse tutti una “grande famiglia”, mentre poi tra i dipendenti covavano inimicizie, rancori, invidie, legate al rapporto più o meno intenso e confidenziale che taluni di loro riuscivano ad instaurare con i vari Consiglieri.

Durante il mio mandato ho tentato di imprimere al rapporto corrente tra datore di lavoro e personale in servizio una modalità assai meno casareccia e sempre più legata all’efficienza delle prestazioni. Sono stato il primo a dover assumere anche iniziative impopolari (mi riferisco a contestazioni sul piano disciplinare), ma anche colui che ha dotato l’Ordine del primo contratto di lavoro decentrato di Ente, che ha sancito in modo chiaro diritti e doveri dei dipendenti stessi, ovvero che si è periziato di effettuare corsi di aggiornamento e di effettuare progressioni economiche che erano ferme da anni. Non avrò lasciato un buon ricordo ma, almeno, non ho fatto alcun favoritismo.

A tal proposito mi è caro ricordare una vicenda che è sicuramente ignota a tutti.

All’Ordine prestava da anni servizio un dipendente noto a tutti come un fannullone, un disimpegnato: costui, anche talvolta con aria strafottente, per questo suo contegno ozioso suscitava ilarità in qualche collega ma anche indignazione tra coloro (la stragrande maggioranza, peraltro) che svolgevano la loro attività con scrupolo e dedizione. Anche lui, come tanti altri, era stato assunto negli anni passati grazie alla militanza che un proprio parente aveva svolto nei ruoli impiegatizi dell’Ordine. Ad un certo punto costui chiese ed ottenne di svolgere lavoro part time. Dopo un po’ di tempo, visto che in ragione della nuova modalità di prestazione del lavoro era stato assegnato ad un servizio probabilmente a lui poco gradito, presentò un’istanza volta ad ottenere l’applicazione di una norma del pubblico impiego che, in presenza di determinate condizioni (convivenza con familiare affetto da grave malattia), consente di fruire sino a due anni di congedo straordinario interamente retribuito. Il Consiglio, su mia proposta, dispose un supplemento di istruttoria poiché non era ben chiaro come tale dipendente (pur avendo due figli con due signore diverse, e vantando altri familiari in grado di occuparsi del congiunto affetto da apparente disabilità) potesse pensare di poter legittimamente fruire della norma in questione.

L’impiegato reiterò l’istanza minacciando di adire il giudice del lavoro, sottolineando di aver già trasferito la propria residenza anagrafica presso l’abitazione del familiare bisognoso della sua assistenza,  e di essere l’unico del proprio nucleo a poter garantire tale prestazioni.

Il Consiglio, intento ad istruire la pratica, fu destinatario di un ricorso ex art. 700 c.p.c. proposto dal proprio dipendente, teso ad ottenere un provvedimento che obbligasse l’Ente a pagargli lo stipendio per due anni senza avere al contempo una controprestazione lavorativa.

Francamente non mi sarei aspettato tanto: fare causa al proprio datore di lavoro ben sapendo di essere in torto e di sfruttare, così, un diritto che “non spetta”. Ero sicuro che la domanda di congedo straordinario fosse basata su circostanze artefatte anche perché un Consigliere mi disse che l’uomo gestiva insieme ad altri due soci, da anni, un ristorante (elemento che avrebbe dovuto, già nel passato, far assumere ai precedenti Consigli seri provvedimenti). La notizia mi fu confermata da un altro dipendente che mi disse: “a Consigliè, ma lei dorme? In quel ristorante ci vanno a cena molti dei suoi colleghi e Lei non lo sa?”.

Preso atto che la circostanza in discorso era di dominio pubblico, e che il tizio con ciò non poteva – ragionevolmente – pensare di garantire assistenza continua al familiare bisognoso, avendo peraltro due famiglie da curare, ho deciso, nelle more dell’udienza, d’accordo con il Presidente e lo Studio legale designato a difendere il Consiglio, di incaricare una società di investigazioni onde poter produrre al Giudice la prova della sicura malafede dell’impiegato. Parallelamente ho chiesto alla Polizia municipale di effettuare accertamenti sulla “effettività” dell’avvenuto cambio di residenza anagrafica.

E’ emerso che durante i sette giorni che avevamo a disposizione per predisporre la difesa, il ricorrente – nonostante avesse già mutato la propria residenza anagrafica – non si è MAI (neppure per un minuto) recato a casa del familiare, ha espletato per cinque sere servizio presso il ristorante (stando alla cassa), ma soprattutto che era stato addirittura fotografato all’interno di un “altro” esercizio pubblico (nei pressi di Piazza Cavour) mentre dava ordini al personale di servizio ed incontrava alcuni fornitori, comportandosi – cioè – da gestore!

Nel frattempo la Polizia municipale ci aveva confermato che durante l’intera settimana dedicata al controllo la pattuglia appostata sotto la (falsa) residenza anagrafica non aveva mai visto entrare od uscire l’interessato dal relativo portone.

Il giorno dell’udienza il ricorrente, ignaro di essere stato seguito, fotografato e registrato nei suoi molteplici spostamenti, ha dichiarato al giudice adito di essere costretto in quei giorni ad assistere il proprio familiare, spesso sino a tarda sera, posto che costui (testuale) “non riesce neppure ad avvitare la caffettiera”.

A quel punto abbiamo esibito i rapporti, dettagliati ed inequivocabili, in nostro possesso, ed il Giudice ha anche sentito l’informatore di persona, che ha sconfessato la versione avversa.

Morale della favola: il Tribunale del lavoro ha immediatamente rigettato il ricorso condannando l’impiegato al pagamento delle spese processuali.

Il tentativo di truffa ai danni del proprio Ente (fondato su false prospettazioni della realtà) era stato quindi sventato. Sono stato costretto ad iniziare un procedimento disciplinare, a seguito di questi eventi, che non si è concluso sol perché l’impiegato ha – correttamente – rassegnato le proprie dimissioni (anche perché gli introiti delle proprie attività imprenditoriali erano ovviamente sufficienti a permettergli di mantenere un tenore di vita elevato, che nessun altro suo collega poteva sperare di avere con lo stipendio versatogli dall’Ordine).

Insomma, è finita così una vicenda che, pare, durasse da anni e scoperta soltanto per la arida avidità del dipendente che, non pago di svolgere altre attività incompatibili con quella del lavoro pubblico, si era permesso di inventarsi anche la storia delle cure al familiare malato!

Sulla conduzione di questa vicenda, conclusasi nell’autunno del 2011 (con la effettiva refusione delle spese processuali sostenute dall’Ordine e le dimissioni rassegnate dal furbastro), è sceso il silenzio più totale da parte chi “sapeva” ma riteneva di dover tacere.

Anche questo avvenimento non interessa la moltitudine degli Avvocati iscritti all’Ordine, anche se so che la sua conclusione ha soddisfatto chi crede ancora nelle persone per bene.

Mi sono assunto la responsabilità di una conduzione della storia ovviamente non gradita all’impiegato infedele, ma – debbo dire – anche a chi lo proteggeva. Debbo ringraziare, sul punto, Antonio Conte che – sempre debitamente informato da me – ha mantenuto l’indispensabile riserbo (cosa rara, in questo mondo di “parlatori”) sulla conduzione delle indagini (una sola indiscrezione avrebbe condotto a ben altro esito) ed ha condiviso ogni mia mossa.

In cuor mio credo che abbiamo svolto un’azione a tutela effettiva dell’Istituzione forense e di tutti quei dipendenti che lì lavorano onestamente, accontentandosi dello stipendio e del prestigio che si ottiene servendo l’Avvocatura romana.

3) Addio, caro Cicerone!

Uno dei primi atti che il nuovo Consiglio dell’Ordine ha adottato è stato quello di sostituire lo storico logo dell’Ordine (che raffigurava Marco Tullio Cicerone) con uno nuovo, stilizzato. L’operazione non è stata indolore perchè, senza alcuna procedura selettiva, si è incaricata una società che ha proposto il nuovo logo, ma facendosi pagare (sul punto, si veda nella rubrica “Verba Volant”, l’estratto del Verbale ove è contenuta la delibera di impegno della spesa). Dopo che il Consiglio, non pago di questa strampalata decisione, ha deliberato di stampare biglietti da visita dei singoli Consiglieri, riproducenti non solo il nuovo (singolare) logo ma persino l’indirizzo privato del proprio studio professionale (!!), Livia Rossi ha diramato queste sue riflessioni, che pubblico senz’altro.

Cicerone e dintorni

Quando qualche anno fa il Consiglio dell’Ordine decise che era giunto il momento  di dotarsi di un logo non ebbe dubbi nell’individuare, tra le varie proposte, l’effige di colui che rappresenta l’antenato piu’ antico e illustre degli appartenenti alla categoria forense: Marco Tullio Cicerone.

Da allora ogni pubblicazione e ogni iniziativa dell’Ordine è stata accompagnata dall’immagine del Maestro che, rassicurante, ricordava ad ogni singolo Avvocato la propria storia e ne radicava il senso di appartenenza.

Ebbene, da oggi gli Avvocati, rimirando il logo simbolo dell’Istituzione, non penseranno piu’ ai fasti dell’eloquenza dell’antica Roma: Cicerone non c’e piu’, e’ stato sostituito da un’immagine stilizzata che probabilmente, nella fervida fantasia del suo autore, dovrebbe ricordare i cordoni di una toga ma che invece e’ molto più’ simile ad un nodo marinaio.

L’iniziale reazione di raccapriccio, tuttavia, cede il passo a  considerazioni di logica spicciola che sembrano chiarire le ragioni di siffatta scelta:  Cicerone, espressione della grande Avvocatura del passato, nulla ha da spartire con l’attuale condizione della categoria ne’ con la compagine consiliare che oggi la governa. L’immagine di una corda annodata nella speranza di non perdersi definitivamente alla deriva appare effettivamente piu’ appropriata.

La buona notizia e’ che il “pensionamento” di Cicerone e’ arrivato in tempo per evitare che l’immagine del nostro illustre antenato venisse associata ad una iniziativa, a dir poco discutibile, che vedrà l’esordio del nuovo logo.

Il Consiglio ha infatti deliberato l’acquisto di carta intestata e biglietti da visita per i quindici Consiglieri. Fin qui nulla di strano, se non fosse che sul materiale in questione verranno stampati, oltre al nome del Consigliere, alla carica e, appunto, al logo dell’Ordine, anche i recapiti dello studio professionale dell’intestatario. Il tutto per la  modica somma di euro 6.596,00 come da preventivo presentato dall’unica ditta interpellata.

 Il fatto, di per s’è, non desterebbe nulla più’ del sorriso che generalmente si riserva a una grossolana pacchianata. Ma, nello specifico, il recente passato in uno con il ruolo e la funzione dell’ Istituzione impongono delle riflessioni.

Appare infatti singolare che chi, fino a pochi mesi orsono, si opponeva ferocemente a qualunque spesa  deliberata dalla maggioranza dell’epoca (comprese iniziative benefiche e modestissime spese per la manutenzione dei locali) ergendosi a garante e tutore del denaro dei colleghi, una volta conquistato il governo abbia velocemente abbandonato tale ruolo deliberando spese inutili senza neanche seguire la prassi – consolidatissima- di effettuare una gara tra almeno tre diversi preventivi.

Quanto all’indicazione dei recapiti professionali dei singoli Consiglieri su carta e biglietti istituzionali, c’è da augurarsi che l’iniziativa sia frutto di semplice ignoranza perché, se così non fosse, emergerebbero profili discutibili sotto il profilo deontologico.

Se infatti predisporre delle “business cards” istituzionali appare legittimo, e’ però ovvio che i recapiti ivi riportati non possano che essere – esclusivamente – quelli dell’istituzione di riferimento. L’indicazione dei recapiti privati – evidentemente ultronea rispetto al mero utilizzo istituzionale – ne presuppone un uso in ambito professionale, come tale non consentito.

 Chiunque conosca un minimo di dottrina e giurisprudenza in materia deontologica sa perfettamente che numerose decisioni disciplinari hanno sanzionato l’uso di carte intestate contenenti informazioni estranee all’esercizio dell’attività professionale in quanto sostanzialmente rivolte all’accaparramento della clientela. In altre parole il Consigliere che desse al cliente , al collega, alla controparte o al semplice conoscente il proprio biglietto da visita con il logo dell’Ordine e l’indicazione della propria carica, in uno con i propri recapiti, fornirebbe un’informazione volta ad ingenerare nei terzi la convinzione di avere una particolare capacità di influenza nell’ambiente professionale e giudiziario, ponendo con ciò in essere la condotta che gli articoli 17 e 17 bis del codice deontologico mirano a prevenire.

Ma se l’organo che sovrintende la disciplina degli iscritti si rende esso stesso promotore di condotte deontologicamente discutibili, come biasimare l’iniziativa governativa volta all’abolizione della cosiddetta giurisdizione domestica?

Infine, per dirla con le parole dell’illustre rimosso dal logo, Quousque tandem abutere patientia nostra?

4) Twitter, un social network utile anche agli Avvocati? NO GRAZIE!

Quella attuale, non c’è dubbio, è l’era delle piattaforme informatiche e della “connettività”: l’uso dilagante degli smartphones (solo apparentemente telefonini cellulari, in realtà strumenti “diabolici” con i quali si possono fare una miriade di cose) consente di rimanere in contatto “in rete” con molti utenti. A questi fini sono congeniali i cc.dd. social network, sostanzialmente meccanismi telematici in grado di permettere a gruppi di persone di essere in contatto simultaneamente.

A differenza di facebook, l’antesignana e storica di queste “reti sociali”, “Twitter” è utilizzato frequentemente anche da professionisti allo scopo di scambiarsi in tempo reale informazioni utili e concrete e non soltanto fesserie dette tanto per ingannare il tempo.

Un esempio in tal senso è quello messo in campo, oramai da qualche mese, dall’Associazione “Movimento Forense” che mediante Avvocatwit ha realizzato una rete tra legali i quali, oltre a scambiarsi informazioni che riguardano, in generale, la “politica forense”, utilizzano Twitter per comunicare lo stato dei servizi degli Uffici giudiziari in tempo reale. Si tratta, in altri termini, di un servizio svolto in completa autonomia, in base al quale ogni avvocato connesso informa il “foro” sull’esistenza di code in attesa presso una cancelleria piuttosto che presso uno sportello addetto alla ricezione di atti, ovvero rende noto agli altri a che punto è lo svolgimento di un’udienza davanti ad un determinato magistrato, ovvero comunica eventi che possono permettere di risparmiar tempo se appresi in anticipo (com’è il caso dell’infausto fenomeno dei rinvii d’ufficio, senza previo avviso, delle udienze).

Lo scambio di informazioni in tempo reale rende, ovviamente, una certa utilità a chi deve fruire dei servizi erogati dagli Uffici giudiziari e quindi la trovata dell’uso di Twitter è non solo geniale ma si pone anche come tentativo di surroga delle inefficienze degli Uffici medesimi, che in realtà dovrebbero essere loro a fornire informazioni costanti agli utenti.

Non solo: perché si è scoperto che l’uso di Twitter può essere foriero di notevoli pressioni sui “centri di potere”, che si rivelano estremamente sensibili ai condizionamenti che una grande massa di utenti è in grado di esercitare in modo simultaneo su talune decisioni che, altrimenti, verrebbero assunte “inaudita altera parte”. Un caso piuttosto emblematico di ciò è rappresentato dalla recente, civilissima, “sommossa” che gli avvocati hanno creato non appena su Twitter si è diffusa (e lo strumento consente ovviamente una rapidissima divulgazione di fatti) la notizia che presso il Ministero della giustizia si era insediata una Commissione deputata a studiare modifiche anche al processo esecutivo civile (denominata sciaguratamente “doing business”), all’interno della quale non era stato chiamato alcun rappresentante della categoria forense, mentre erano presenti quelli di banche, assicurazioni, imprese, ecc.

Il Ministero, visto il notevole tam tam di protesta degli avvocati “twittaroli” (di tutta Italia, ovviamente), è stato costretto a fare dietro-front e ad allargare immediatamente il “tavolo”.

Le rappresentanze politiche ed istituzionali degli avvocati, ovviamente, sono arrivate “sul pezzo” solo dopo tanto tempo che il revirement della Severino era stato, grazie al movimento degli avvocati presenti su Twitter, attuato.

Ovviamente moltissime realtà istituzionali (persino i Ministeri, gli Enti locali, ecc.) sono presenti con loro account su Twitter. Tuttavia, in controtendenza, abbiamo letto la delibera del nuovo COA di Roma del 26 aprile 2012 che, sollecitato da un gruppo di iscritti ad attivare un profilo Twitter (allo scopo ovviamente non di fare propaganda politica ma solo di fornire notizie utili alla comunità degli iscritti), ha detto di no, rigettando la richiesta.

Sarà per una prossima occasione.

5) Sull’orario delle cancellerie. Guarda l’asino che vola!

(e la Corte d’appello riduce a sua volta…)

Che tra gli avvocati vi siano molti creduloni, è cosa risaputa. Come è notorio il fatto che gli avvocati siano bravissimi quando si tratta di difendere i diritti dei clienti ed invece dimostrino piuttosto una certa sciatteria e trascuratezza in occasione della tutela dei propri interessi (del resto la storia del ciabattino che va in giro con le scarpe rotte è famosa).

Qualche mese fa il Presidente del Tribunale di Roma se ne uscì, insieme al suo dirigente amministrativo, adottando un provvedimento (valido in via sperimentale sino al 31 dicembre 2011) di riduzione dell’orario di apertura delle cancellerie (da 4 a3 ore), motivato con l’esigenza di utilizzare l’ora “recuperata” con l’espletamento di servizi di back-office (scansione di sentenze, inserimento dati sul pc, ecc.), oggettivamente non assolvibili con la presenza del pubblico. Il provvedimento fu preso senza concerto con l’Ordine degli Avvocati, che insorse, chiedendo udienza a de Fiore ed al dirigente amministrativo. Nel mentre le parti trattavano (l’Ordine nel frattempo aveva anche compiuto operazioni “di forza”, quali il ritiro dei propri dipendenti assegnati ai vari Uffici del Tribunale a supporto del personale ministeriale di ruolo), taluni avvocati (in numero di 31, i primi 15 tutti i candidati della “lista Mauro Vaglio”) hanno proposto un ricorso al TAR avverso quel provvedimento. Il ricorso si fondava esclusivamente su una normativa del 1960, che imponeva l’apertura al pubblico per 5 ore delle cancellerie degli uffici giudiziari. La proposizione del ricorso era assolutamente strumentale alla campagna elettorale (basti vedere, appunto, i nomi dei primi 15 ricorrenti) – in quel momento assolutamente nel pieno del suo svolgimento – per il rinnovo del Consiglio dell’Ordine capitolino. Chi proponeva il ricorso aveva detto agli elettori che mentre il Consiglio “colloquia amabilmente” con i dirigenti del Tribunale “noi tuteliamo i vostri/nostri diritti dinanzi al giudice amministrativo”.

Il dialogo tra le due Istituzioni (il Coa da un lato i vertici del Tribunale dall’altro) ha prodotto di lì a poco un risultato assolutamente soddisfacente: l’orario di apertura è stato infatti portato a 3 ore e mezza, con una ulteriore mezz’ora riservata solo agli adempimenti scadenti in quella giornata. In sostanza, si era ritornati alle originarie 4 ore, con l’aggiunta che, chi doveva assolvere ad un incombente “ultimo giorno”, negli ultimi trenta minuti di apertura della cancelleria non aveva altri ad intralciare la sua operazione.

I ricorrenti, non paghi di questo risultato, e dovendo continuare nel loro atteggiamento populistico e demagogico, hanno proposto motivi aggiunti avverso questo secondo provvedimento, ed hanno insistentemente chiesto la decisione al TAR Lazio sulla domanda cautelare proposta.

Taluni avvocati hanno deciso, motu proprio, di proporre un intervento in quel giudizio, al solo scopo di far capire al Collegio giudicante quanta massiccia dose di strumentalizzazione si celasse dietro al ricorso originario: costoro, convinti che l’ultima versione del provvedimento di de Fiore soddisfacesse la categoria forense, si sono limitati a rappresentare al TAR che il gravame era stato ispirato da chiarissime motivazioni “politiche”, infuriando in quel preciso momento la campagna elettorale (da sempre molto sentita e combattuta) per il rinnovo del Coa di Roma.

Il difensore dei ricorrenti comunicò coram populo l’esistenza di quell’atto di intervento con una mail nella quale dichiarava “di essere caduto dalla sedia” dopo averlo letto.

Il TAR, con ord.za n. 4912 del 20 dicembre 2011, accoglieva l’istanza incidentale osservando che l’atto di de Fiore appariva, ad una sommaria cognitio, illegittimo. Ovviamente, il TAR non ha statuito che le cancellerie dovessero essere aperte 5 ore, come è stato fatto credere quando è iniziato il “volantinaggio” (cioè distribuzione gratuita di copia dell’ord.za del TAR nella “chiostrina” del Tribunale civile) accompagnato dallo slogan “la lista di Mauro Vaglio vi ha fatto il regalo di Natale!!”. La decisione del TAR ha quindi solo fatto perdere effetti all’atto di de Fiore, riportando alle 4 originarie le ore di apertura al pubblico delle cancellerie del Tribunale.

Sull’abbrivio di quella vittoria, in effetti, la “lista Mauro Vaglio” era riuscita poi a stravincere le elezioni, a febbraio 2012, per il Consiglio dell’Ordine, facendo eleggere 13 consiglieri su 15 e provando concretamente al foro che – mostrando “gli attributi” ai poteri forti (il TAR, che gli ha dato ragione, non lo sarebbe, peraltro) si riesce ad essere vincenti ed a fare il bene della famiglia (sic!) dell’Avvocatura.

Finite le elezioni, finiscono pure le mail, la demagogia, la propaganda (fatta per chi ci crede).

L’Avvocatura dello Stato, però, richiesta dal Presidente del Tribunale, propone appello al Consiglio di Stato avverso quella ord.za natalizia ed il Supremo Consesso amministrativo infligge una delusione cocente ai ricorrenti (che cantano vittoria solo dopo il primo tempo e non attendono mai alla fine dell’incontro), perché con ord.za n. 916 del 6 marzo 2012 ribalta l’orientamento del TAR affermando che al giorno d’oggi una norma del 1960 (quando non esistevano l’informatica, la tecnologia attuale, la possibilità di assolvere a taluni adempimenti da remoto) non è di fatto più invocabile e che, comunque, la contrazione a tre delle ore di apertura delle cancellerie non comporta la configurabilità di alcun danno irreparabile. Chi prima cantava vittoria, ora ha un nodo in gola (se serba un poco di dignità ed amor proprio).

Alla decisione del Consiglio di Stato, ovviamente, i ricorrenti in primo grado (ed ora soccombenti) non danno tutta la straordinaria pubblicità che aveva invece meritato il “regalo natalizio” del TAR: pochi avvocati ne vengono a conoscenza e si chiedono come mai il Tribunale non abbia ancora portato a 5 le ore di apertura delle cancellerie. Ai ricorrenti importa poco: molti di loro hanno ottenuto quel che volevano, sedere – cioè – come membri all’interno del Consiglio dell’Ordine, anche se poi non hanno alcuna esperienza di pratiche burocratiche espletate dal COA e non sanno dove mettere le mani negli uffici di Piazza Cavour. Pian piano, però, la notizia della sconfitta si diffonde, ed inizia a serpeggiare un certo malcontento: “ci avevate detto che avremmo visto aperti gli uffici dalle ore 8 alle ore 13 e non è così!”, hanno cominciato ad osservare i meno addormentati.

Ma gli avvocati sono, in gran parte, dei creduloni, e ben gli sta. Hanno creduto in quel ricorso, proposto solo per finalità elettorali, ed ora sono delusi del risultato raggiunto. Hanno creduto (perché gli è stato rappresentato così, nessuno che si va a leggere le fonti!) che quell’atto di intervento fosse stato fatto “contro gli interessi della categoria”, e solo oggi – quando oramai è inutile – si sono avveduti che non era così. Ben gli sta, ripeto.

Non solo. Il peggio deve ancora venire. E sì, perché da quella dissennata iniziativa processuale, sbandierata come il vessillo della lotta dell’Avvocatura contro lo strapotere dei magistrati e della burocrazia degli Uffici giudiziari, discenderanno sciagurate conseguenze, che non ci sarebbero state se quell’accordo “bonario” tra l’Ordine (quello del biennio precedente, per capirci) ed il Tribunale fosse stato rispettato invece che attaccato. Un accordo frutto di una ragionevole “mediazione” (ma, si sa, il termine oggi costituisce una ingiuria, per la maggioranza del Coa romano) tra gli interessi della categoria forense e quelli degli impiegati delle cancellerie. Una tra le prime disastrose conseguenze è quella data dal provvedimento del Presidente della Corte d’appello dr. Santacroce il quale, visto ciò che ha detto il Consiglio di Stato in quella sua ordinanza del 6 marzo, si è sentito ovviamente in diritto di adottare un suo provvedimento con il quale, a decorrere dal 14 maggio 2012, le cancellerie della Corte saranno aperte solo 180 minuti, dalle ore 9 alle ore 12.

www.giustizia.lazio.it/appello.it/base.php?inf=visualizza.php&Notizia=57

Ottimo, straordinario risultato, non c’è che dire, derivante unicamente da quell’iniziativa processuale spesa in campagna elettorale come fosse l’alabarda dell’Avvocatura.

Solo che, oggi, “la lista Mauro Vaglio”, in qualità di lista presentatasi nella competizione elettorale, ed alla quale dobbiamo in via esclusiva la responsabilità di questo “successo”, non c’è più….: e allora chi lo impugna, in assenza di idonei “paladini”, ‘sto provvedimento?

6) Mobiliare o Immobiliare: questo è il dilemma!

Quando svolgiamo sessione di esami di diritto processuale civile all’Università e vogliamo mettere a proprio agio lo studente nel momento in cui affronta il tema dell’esecuzione forzata (terzo libro del Codice di rito), poniamo domande piuttosto banali, tanto per introdurre l’argomento, tipo: “Quanti tipi di esecuzione forzata conosce?”. Se lo studente è attento e preparato, risponde: “Tre. Mobiliare, immobiliare e presso terzi”. Se, invece, lo studente è impreparato, annaspa, tentenna, farfuglia, ne cita un solo tipo o fa confusione tra gli stessi. A quel punto l’esaminatore capisce che se lo studente non è in grado di distinguere, in modo grossolano, neppure tra “le specie” delle esecuzioni, difficilmente sarà in grado di discettare sulla conversione del pignoramento o sulla natura giuridica della vendita forzata. Ed il docente tende a valutare negativamente la prova.

Ora, però, questo atteggiamento di “severità” non lo si potrà più tenere, avendo appreso che non v’è distinzione tra esecuzione mobiliare ed immobiliare e che, presso il Tribunale di Roma, v’è una sola Sezione che si occupa della materia. La notizia l’ho avuta leggendo la mail che ho ricevuto il 16 maggio 2012 dall’Ordine degli Avvocati, a firma del Presidente e del Segretario, che trascrivo testualmente: “Oggetto: Richiesta copie via e-mail per Tribunale Esecuzioni Mobiliari. In merito al ben noto disagio, più volte lamentato dai Colleghi, di dover effettuare almeno tre file per ottenere le copie delle ordinanze di assegnazione e degli altri provvedimenti relativi alle esecuzioni immobiliari, riportiamo, qui di seguito, i contenuti dell’accordo raggiunto tra il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma e la Sezione Esecuzioni Immobiliari. Il Presidente della Sezione Esecuzioni Immobiliari, Dott. (omissis), e il Dirigente della relativa Cancelleria, Dott.ssa (omissis), di concerto con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, hanno disposto l’attivazione a decorrere dal 1° giugno 2012 del servizio di richiesta via email delle copie delle ordinanze di assegnazione e degli altri provvedimenti definitivi. La richiesta dovrà essere effettuata esclusivamente attraverso la P.E.C. dell’iscritto, copiando all’interno del messaggio il seguente testo: apri il modello di richiesta. Raccomandiamo di leggere attentamente le seguenti istruzioni: leggi le istruzioni . Con i migliori saluti”.

Il testo della comunicazione parla, indifferentemente delle esecuzioni Immobiliari (tre volte)  e delle esecuzioni Mobiliari (una volta). Gli allegati (modello di richiesta e istruzioni) si riferiscono, poi, alle (sole) esecuzioni Mobiliari.

Vacci a capire.

Nel pomeriggio molti degli oltre ventimila colleghi romani che esercitano nel campo del civile hanno iniziato a chiamarsi per cercare di avere reciprocamente dei lumi.

Poi si è scoperto il “guasto”. Nulla di preoccupante. Il problema è ….. il “comunicatore”. Comunicatore??? “Che c’entra il comunicatore”, direte Voi? C’entra, c’entra.

Rileggo il verbale dell’Adunanza consiliare del 26 aprile 2012, nella quale si è deciso di reclutare (al costo di ventiquattromila euro all’anno, oltre Iva ed accessori) uno specialista nella “comunicazione consiliare”:

Il Consigliere Tesoriere rappresenta al Consiglio che la vasta articolazione delle attività svolte dall’Ordine e la necessità di comunicarne efficacemente i contenuti a diversi destinatari (Avvocati, Istituzioni, semplici cittadini, ecc.) comporta, nell’odierno scenario multimediale, la necessità di sviluppare una “politica” della comunicazione che, tenendo conto caso per caso della natura e dei destinatari dell’informazione, individui i mezzi di comunicazione più efficaci e ne adatti i contenuti in funzione dei media scelti. La “politica” della comunicazione può riguardare anche la scelta dei tempi e delle modalità con cui diffondere l’informazione e può avvalersi, se necessario e previa autorizzazione del Presidente, della collaborazione occasionale di figure professionali particolarmente introdotte negli Organi di stampa o di informazione in genere, in grado di facilitare la pubblicazione. Per questa attività è necessario avvalersi della collaborazione, delle competenze e della professionalità di personale competente. Sotto tale profilo, e tenuto conto anche della delicatezza del ruolo da svolgere che deve essere attribuito a persona che gode della fiducia da parte delle cariche istituzionali del Consiglio, è stato individuato il Signor (omissis) che opera nel settore della comunicazione e la cui esperienza professionale, in questo settore, è ben nota e apprezzata. Detto professionista dovrà coordinare le attività di comunicazione e organizzare i contenuti informativi che, di volta in volta, gli verranno affidati, ottimizzandoli in funzione della particolare natura del mezzo o dei mezzi prescelti per la comunicazione: stampa, televisione, email e altri mezzi di diffusione. Ciò riguarderà, in generale, tutte le attività svolte dall’Ordine e che l’Ordine stesso intenderà comunicare, in modo che possano essere più efficacemente trasmesse e diffuse presso i colleghi, i politici e i cittadini. Il compenso previsto in base all’allegato contratto a progetto (all. n. 2), della durata di mesi dodici, è di euro 2.000,00 mensili”.

Nella comunicazione, assolutamente strategica in un momento come questo (avvertivamo tutti, infatti, la mancanza di una figura esperta nella comunicazione all’interno dei ruoli consiliari, visto lo “scenario multimediale” nel quale ci muoviamo), si parla di “tempi e modalità”, mentre i “contenuti” (che forse sono la cosa più importante, se si deve svolgere un “servizio” in favore degli iscritti, e non fare attività sindacale) sono quelli che “verranno affidati” al comunicatore.

 Ecco, appunto: chi è che glieli affida, i “contenuti”?

 Mobiliare o Immobiliare (essere o non essere)…: questo è il dilemma….

 7) Quando si predica bene ma si razzola male…. (a proposito dei “proggggetti”)

Uno degli argomenti che il Presidente in carica del Coa di Roma ha utilizzato per “vendicarsi” del fatto di essere stato estromesso, nel biennio precedente, dalle Commissioni di studio consiliari (organismi storici, cui era da sempre affidato il compito di supportare l’Istituzione nelle attività scientifiche, di studio e di approfondimento di tematiche di attualità) è stato quello di sopprimerle. Invero lui non fu estromesso per capriccio, nel febbraio 2010, quando si distribuirono le responsabilità dei coordinamenti delle Commissioni: era, semplicemente, sull’“Aventino”, disertando le Adunanze consiliari, confidando che il ricorso proposto da Cassiani al TAR avverso la prima convocazione del Consiglio (firmata da Cipollone), fosse accolto. Ma il ricorso fu respinto e quando Vaglio decise di rientrare a Piazza Cavour le Commissioni (che non potevano attendere i suoi comodi) erano state tutte attribuite.
Ma questa è storia, non se la ricorda nessuno e non importa a molti. Fatto sta che nel biennio 2010/2011 quelle Commissioni (posso almeno parlare per quelle coordinate da me, di diritto amm.vo, di diritto e procedura civile e degli Avvocati degli Enti pubblici) hanno lavorato sempre costantemente, organizzando molti seminari, corsi e convegni, i cui atti sino a febbraio erano anche pubblicati sul sito dell’Ordine a beneficio di tutti i colleghi (e non solo).
Poi, Vaglio, ha deciso di buttare quei lavori, di eliminare la voce “Commissioni consiliari” dal sito, di mandare tutto a carte quarant’otto, di far letteralmente sparire i contributi editi, nonostante che in quelle Commissioni figuravano moltissimi dei colleghi che, oggi, fanno parte dei “progetti”.
Progetti??? Si, i progetti!
Perché a fronte della unilaterale decisione di Vaglio di sopprimere le Commissioni è stata approvata l’idea di creare i “progetti” (eravamo, a Roma, in quel periodo, in pieno delirio da ….Luis Enrique!).
Leggiamo, con le carte alla mano, dunque, in che consistono questi “progetti”.

Dal discorso inaugurale di Vaglio del 23 febbraio 2012

«E’ per questo che non inizieremo il nostro lavoro con la consueta spartizione delle Commissioni consiliari. Ciò, infatti, tradirebbe già da subito la volontà della base che chiede a gran voce una discontinuità con le logiche di gestione che hanno caratterizzato negli anni la nostra Istituzione.
La società è cambiata, l’Avvocatura è cambiata, noi dobbiamo cambiare. Perciò da oggi non parleremo più di Commissioni, ma di ‘Progetti’ e ciascun Consigliere avrà il compito di sottopormi il proprio progetto nell’ambito dei settori che nei prossimi giorni provvederò ad assegnare, così come compete al Presidente del Consiglio dell’Ordine.
Tali progetti dovranno essere portati a termine entro tre mesi ed in mancanza di puntuale adempimento da parte degli assegnatari, il compito verrà riassegnato ad altri Consiglieri. Ma di questo avremo modo di parlare più approfonditamente nelle prossime adunanze, nelle quali istituzionalizzeremo anche la Consulta Permanente dell’Avvocatura romana e daremo avvio a tante altre novità, indirizzate a coinvolgere la professionalità del maggior numero possibile di Colleghi desiderosi di mettersi al servizio degli iscritti.
Dobbiamo chiederci: cosa si aspetta l’Avvocatura romana da noi?».

Qualcuno afferma che ancora se lo sta chiedendo….. ma non sa darsi risposta. Altri, invece, pare che la risposta l’abbiano già data.
Ad ogni modo già da questo primo discorso si svela uno spessissimo livore che Vaglio cova verso il passato, denso di desiderio di “vendetta”. Il linguaggio usato la dice lunga. Prima, secondo lui, ci si “spartiva” il posto in Commissione (quasi fosse un appalto tra mafiosi!). Oggi, invece, occorre un maggiore “coinvolgimento”.
L’iniziativa è tuttavia ambiziosa, anche perché si danno termini stringenti…..
Proseguiamo, sempre leggendo i verbali ufficiali delle Adunanze.

Dalla comunicazione di Vaglio dell’1 marzo 2012

«Progetti di settore, strutture consiliari e dipartimenti: comunicazioni del Presidente
– Il Presidente comunica le metodologie seguite nella divisione dei compiti del nuovo Consiglio.
Viene data una competenza specifica a Progetto per cui dovranno essere indicati membri e responsabili, evitando sovrapposizioni. Ogni Consigliere dovrà segnalare assenti. Chi si impegna a prestare servizio per il Consiglio, salvo casi eccezionali, dovrà rispettare l’impegno. I Progetti sono trimestrali. Al termine verrà indicato un nuovo o più ampio Progetto. Chi sarà inadempiente sarà sostituito o affiancato.
Alcuni Settori non sono stati ancora assegnati. Per le Strutture consiliari e Dipartimenti non c’è bisogno di Progetti.
Un appunto su un Settore specifico va fatto: la Camera Arbitrale. Il Presidente voleva escluderla, ma il Consigliere Tesoriere cercherà di farla funzionare. Ma resta a scadenza.
Il Presidente, come anticipato nella propria comunicazione di insediamento, informa il Consiglio che assegnerà ai Consiglieri la delega a predisporre dei Progetti da sviluppare in Settori specifici dell’attività forense e che ciascun Consigliere dovrà preparare un programma da portare a compimento entro tre mesi, attenendosi ai seguenti principi:
1) in primo luogo i Consiglieri delegati dovranno predisporre un Progetto di Settore e presentarlo al Presidente per l’approvazione;
2) nel Progetto il Consigliere delegato dovrà anche indicare i nominativi dei Colleghi del cui ausilio riterrà di doversi avvalere, designando contestualmente i responsabili del progetto;
3) in virtù del principio di massima partecipazione degli iscritti, nessun Collega potrà partecipare a più di un Progetto;
4) chi è stato designato come componente di un Progetto non potrà mancare alle riunioni, agli incontri o agli eventi fissati dal Consigliere delegato, per più di due volte in un anno;
5) portati a termine i Progetti trimestrali, i Consiglieri delegati dovranno presentare al Presidente un nuovo Progetto, specificando il tempo necessario per concluderlo;
6) in caso di mancato conseguimento degli obiettivi prefissati, il Consigliere inadempiente verrà sostituito o, quantomeno, affiancato da altro Consigliere.
In buona sostanza, non sarà più ammesso, come succedeva negli anni passati con alcune Commissioni, che un Consigliere riunisca i Colleghi scelti per supportarlo una volta ogni due o tre mesi o, peggio ancora, solo in prossimità delle scadenze elettorali».

Accipicchia che decisionismo e che piglio!! Gli stessi Consiglieri che pendono dalle labbra di Vaglio hanno un sussulto, ritenendo arduo – se non con un forte impegno e con molta dedizione – riuscire a raggiungere gli ambiziosi risultati impostigli dal loro Presidente. Ad ogni modo molti si danno subito da fare per evitare di dover subire la collera di Vaglio, che li accuserebbe – pure loro – di “riunire i Colleghi scelti per supportarlo una volta ogni due o tre mesi o, peggio ancora, solo in prossimità delle scadenze elettorali”. Si sottintende, cioè, che i precedenti Commissari – ripetesi, molti dei quali sono oggi gli stessi “progettisti” – erano dei fannulloni.
La progettualità è partita, dunque, il 1° marzo. Sto scrivendo il primo giugno ed i tre mesi assegnati sono scaduti.
Facciamo allora una capatina sul sito internet dell’Ordine e vediamo, sul menu di sinistra, di entrare nella voce “Progetti Consiliari di Settore”. Ci accorgiamo subito che, ad onta del “piglio vagliano”, alcuni progetti sono vuoti, senza colleghi indicati come componenti del Settore: non hanno fatto nulla, manco uno sbadiglio. Niente di niente, nada de nada. Com’è il caso del Settore “Sport”, di quello “Tributario e sanzioni amministrative”, e poi “Rapporti con le Istituzioni”, “Proprietà e locazioni”, “Consumatori”, “Responsabilità civile”, e così via. Zero spaccato.
Poi, altra falla, piuttosto evidente. Il punto 3 del “decalogo” (una sorta di dodici tavole) impone che “nessun Collega potrà partecipare a più di un progetto”. Mi spiace, ma ne trovo alcuni che sono in diversi progetti. Sarà stata una svista dei coordinatori….
Il mio amico Carlo Giacchetti, ad esempio (non me ne voglia) si trova addirittura in 3 progetti diversi: difese d’ufficio, penale, negazionismo. Ma non è il solo: il collega Vecchio sta nel progetto di procedura civile “ma anche” (per dirla alla Veltroni) in quello della Famiglia. Ancora: Ottorino Agati, mio collega attivo anche su Twitter, sta nel settore Difese d’ufficio ed in quello della Famiglia. Capiamoci: che ci siano colleghi volenterosi che sacrificano il loro tempo per dare un servizio agli altri è meritorio ed encomiabile ed io non limiterei affatto il loro impegno: ma Vaglio lo ha voluto fare e poi, però, omette ogni controllo al riguardo!
Potrei continuare, ma non ne ho voglia. Sta di fatto che prima di sputar veleno su quel che è stato compiuto nel passato, Vaglio avrebbe dovuto preventivamente accertarsi se fosse capace almeno di fare altrettanto.
Sarebbe poi il caso di andarsi a vedere se nei “tre mesi” assegnati dal “comandante” i progetti si siano davvero esauriti e con che tipologia di contenuti o con quali risultati concreti per l’Avvocatura romana. E, infine, quanti colleghi latitanti siano stati, per inerzia, espulsi (ma i cartellini rossi Vaglio li deve aver lasciati tutti sulla Costa Concordia…), quanti Consiglieri inoperosi sostituiti. Ma qui, forse è meglio essere pietosi….

8) LA PARENTOPOLI DELL’ORDINE DI ROMA

Il Consigliere Segretario di un Ordine professionale è responsabile, tra le altre cose, dell’organizzazione amministrativa dell’Ente (salve deleghe specifiche che il Consiglio può conferire ad uno o più Consiglieri) e della gestione delle risorse umane legate da rapporto di lavoro con l’Istituzione. Quando son diventato Segretario io, dell’Ordine degli Avvocati di Roma, ho promesso che non avremmo più instaurato rapporti di lavoro con parenti di dipendenti in servizio: prassi purtroppo avviata da alcuni precedenti Segretari verosimilmente sotto la pressione di taluni Presidenti. Ho sempre creduto che la presenza di genitori e figli all’interno di un ambiente di lavoro pubblico (a meno che entrambi non siano vincitori, con merito, di concorso) nuoccia alla serietà ed alla credibilità del datore medesimo, determinando malumori tra il personale non “beneficiato”.

Naturalmente questa decisione mi ha arrecato non poche ostilità con coloro i quali, dipendenti dell’Ordine, prima erano stati abituati a vedersi assumere, con contratti di lavoro a tempo (ma spesso prorogati o rinnovati) i propri figli, fratelli, cognati.

Io ritengo che i dipendenti dell’Ordine siano persone per bene e costituiscano una risorsa preziosa per l’Istituzione: tanto che a mia memoria sono stato l’unico rappresentante della storia dell’Ordine a dedicare loro (sul Foro Romano n. 5/6 del 2010) un editoriale di elogio. Tutto ciò non comporta, però, che il personale stesso debba ottenere (oltre ad una retribuzione affatto indecorosa, ai pacchi-dono di Natale e Pasqua, alle borse di studio per i figli in età scolare, ed altri numerosi benefits), dei vantaggi illegittimi quali possono essere il reclutamento nei ruoli consiliari – in stile assolutamente nepotistico – dei propri parenti.

Ovviamente, assumere i figli od i fratelli dei dipendenti comporta una certa gratitudine da parte loro e, quindi, un indubitabile vantaggio per chi è chiamato ad amministrare; viceversa, assumere atteggiamenti impopolari, come l’essere contrario a queste prassi, determina una oggettiva contrarietà in coloro i quali, poi, sono chiamati ad eseguire gli ordini.

Ma non me ne è mai fregato nulla e, quindi, non ho fatto piaceri di questo genere ad alcuno.

Quando è stato bandito un concorso pubblico per la copertura di 12 posti di Area B (diplomati), la domanda di partecipazione l’ha fatta anche la tata dei miei figli. Io sono stato chiamato, dal Consiglio, a presiedere la Commissione esaminatrice e quella ragazza non ha superato neppure la prima prova scritta. Come, del resto, i figli di quei dipendenti che avevano fatto domanda. Ciò basta, credo.

Il nuovo Consiglio dell’Ordine romano, insediatosi a febbraio 2012, ha invertito la tendenza ed ha ripristinato – invece – l’antica e “virtuosa” prassi. Tra i trentadue (dico 32!) dipendenti assunti a tempo determinato (chi con la prima scadenza contrattuale al 31 luglio, chi con cessazione del rapporto a fine anno) ci sono 5 parenti di dipendenti in servizio (tre figli e due fratelli, oltre ad un altro figlio di dipendente da poco collocato a riposo: non so se esistano cognati, non potendo riconnettere i loro cognomi a quelli dei dipendenti di ruolo).

Non solo. Se si deve fare compiacenza a qualcuno si assume anche qualche figlio di cancelliere in servizio. E così è stato: figli di cancellieri che lavorano in Corte di cassazione, figli di cancellieri che lavorano al Giudice di Pace.

Il Consigliere Conte, a proposito di uno di questi casi, ha chiesto al Consigliere Segretario se trovava corretto ed opportuno che una ragazza, figlia di una cancelliera addetta al Giudice di Pace, fosse stata avviata al servizio, da esso Segretario, proprio nel posto dove lavora la madre (cfr. Verbale dell’Adunanza del 22 maggio 2012, sul sito web dell’Ordine). Il Segretario è apparso cadere dalle nuvole rilevando peraltro che i cognomi tra le due donne erano …. diversi (in Italia le ragazze portano il cognome del padre, e le donne sposate sul lavoro conservano quello loro, non assumendo cioè quello del marito).

Il personale alle dipendenze dell’Ordine degli Avvocati è costato, nel 2011 (tra stipendi, contributi ed oneri per lavoro straordinario) meno di due milioni di Euro. Su un bilancio di poco più di cinque milioni di entrate l’anno si tratta, da sempre, della voce di spesa più cospicua che l’Ente sostiene. Ma il Consiglio – questo nuovo Consiglio – ha proposto di approvare un bilancio preventivo, per l’anno 2012, che per il personale prevede OLTRE TRE MILIONI DI EURO DI SPESA!! Un incremento mostruoso, rispetto al solo anno precedente, che non trova giustificazione alcuna in un momento di così straordinaria e mondiale crisi economica.

E pensare che, motivando esclusivamente con l’esigenza di risparmiare (sic!!), il nuovo Consiglio ha deciso di revocare l’intero concorso in essere (quello di cui parlavo sopra, per la copertura di 12 posti di Area B, che era arrivato agli orali), con delibera assunta nell’Adunanza del 12 aprile. Da un lato, cioè, si revoca una procedura selettiva, pubblica e trasparente, per ragioni economiche, dall’altro si assumono 32 dipendenti non di ruolo (sfondando di molto e senza ritegno il limite dei 42 posti in dotazione organica vigente!) con procedura informale e quanto meno “discrezionale”.

Ho detto queste cose, pubblicamente, all’Assemblea di approvazione del bilancio, svoltasi il 28 giugno scorso: ed uno, in Aula, mi ha maleducatamente interrotto dicendo che “abbiamo cose più importanti cui pensare”. Questo signore, cui evidentemente non importa se il Consiglio spende un milione di euro in più rispetto all’anno prima per fare assunzioni di piacere, non deve pagare i contributi all’Ordine (che quindi non gestisce i soldi suoi), oppure se li paga deve essere ricco, ovvero ha qualcosa che sinceramente mi sfugge. Io credo, invece, che tutte queste cose lui non le sapesse, come del resto non le sanno tanti altri colleghi che sono presi da mille difficoltà quotidiane e sperano che i loro denari siano amministrati, dall’Istituzione forense cui appartengono, in modo oculato e secondo la diligenza del buon padre di famiglia. Ecco: “padre”. Se l’Ordine deve necessariamente aiutare qualcuno, che allora assuma come interinali i figli disoccupati di quei colleghi che versano in stato di indigenza: avremo forse una cortesia in meno dalla cancelliera del Giudice di Pace ma staremmo, probabilmente, più a posto con la nostra coscienza.

 7) Quando si predica bene ma si razzola male…. (a proposito dei “proggggetti”)

Uno degli argomenti che il Presidente in carica del Coa di Roma ha utilizzato per “vendicarsi” del fatto di essere stato estromesso, nel biennio precedente, dalle Commissioni di studio consiliari (organismi storici, cui era da sempre affidato il compito di supportare l’Istituzione nelle attività scientifiche, di studio e di approfondimento di tematiche di attualità) è stato quello di sopprimerle. Invero lui non fu estromesso per capriccio, nel febbraio 2010, quando si distribuirono le responsabilità dei coordinamenti delle Commissioni: era, semplicemente, sull’“Aventino”, disertando le Adunanze consiliari, confidando che il ricorso proposto da Cassiani al TAR avverso la prima convocazione del Consiglio (firmata da Cipollone), fosse accolto. Ma il ricorso fu respinto e quando Vaglio decise di rientrare a Piazza Cavour le Commissioni (che non potevano attendere i suoi comodi) erano state tutte attribuite. Ma questa è storia, non se la ricorda nessuno e non importa a molti. Fatto sta che nel biennio 2010/2011 quelle Commissioni (posso almeno parlare per quelle coordinate da me, di diritto amm.vo, di diritto e procedura civile e degli Avvocati degli Enti pubblici) hanno lavorato sempre costantemente, organizzando molti seminari, corsi e convegni, i cui atti sino a febbraio erano anche pubblicati sul sito dell’Ordine a beneficio di tutti i colleghi (e non solo). Poi, Vaglio, ha deciso di buttare quei lavori, di eliminare la voce “Commissioni consiliari” dal sito, di mandare tutto a carte quarant’otto, di far letteralmente sparire i contributi editi, nonostante che in quelle Commissioni figuravano moltissimi dei colleghi che, oggi, fanno parte dei “progetti”. Progetti??? Si, i progetti! Perché a fronte della unilaterale decisione di Vaglio di sopprimere le Commissioni è stata approvata l’idea di creare i “progetti” (eravamo, a Roma, in quel periodo, in pieno delirio da ….Luis Enrique!). Leggiamo, con le carte alla mano, dunque, in che consistono questi “progetti”.

Dal discorso inaugurale di Vaglio del 23 febbraio 2012

«E’ per questo che non inizieremo il nostro lavoro con la consueta spartizione delle Commissioni consiliari. Ciò, infatti, tradirebbe già da subito la volontà della base che chiede a gran voce una discontinuità con le logiche di gestione che hanno caratterizzato negli anni la nostra Istituzione. La società è cambiata, l’Avvocatura è cambiata, noi dobbiamo cambiare. Perciò da oggi non parleremo più di Commissioni, ma di ‘Progetti’ e ciascun Consigliere avrà il compito di sottopormi il proprio progetto nell’ambito dei settori che nei prossimi giorni provvederò ad assegnare, così come compete al Presidente del Consiglio dell’Ordine. Tali progetti dovranno essere portati a termine entro tre mesi ed in mancanza di puntuale adempimento da parte degli assegnatari, il compito verrà riassegnato ad altri Consiglieri. Ma di questo avremo modo di parlare più approfonditamente nelle prossime adunanze, nelle quali istituzionalizzeremo anche la Consulta Permanente dell’Avvocatura romana e daremo avvio a tante altre novità, indirizzate a coinvolgere la professionalità del maggior numero possibile di Colleghi desiderosi di mettersi al servizio degli iscritti. Dobbiamo chiederci: cosa si aspetta l’Avvocatura romana da noi?».

Qualcuno afferma che ancora se lo sta chiedendo….. ma non sa darsi risposta. Altri, invece, pare che la risposta l’abbiano già data. Ad ogni modo già da questo primo discorso si svela uno spessissimo livore che Vaglio cova verso il passato, denso di desiderio di “vendetta”. Il linguaggio usato la dice lunga. Prima, secondo lui, ci si “spartiva” il posto in Commissione (quasi fosse un appalto tra mafiosi!). Oggi, invece, occorre un maggiore “coinvolgimento”. L’iniziativa è tuttavia ambiziosa, anche perché si danno termini stringenti….. Proseguiamo, sempre leggendo i verbali ufficiali delle Adunanze.

Dalla comunicazione di Vaglio dell’1 marzo 2012

«Progetti di settore, strutture consiliari e dipartimenti: comunicazioni del Presidente – Il Presidente comunica le metodologie seguite nella divisione dei compiti del nuovo Consiglio. Viene data una competenza specifica a Progetto per cui dovranno essere indicati membri e responsabili, evitando sovrapposizioni. Ogni Consigliere dovrà segnalare assenti. Chi si impegna a prestare servizio per il Consiglio, salvo casi eccezionali, dovrà rispettare l’impegno. I Progetti sono trimestrali. Al termine verrà indicato un nuovo o più ampio Progetto. Chi sarà inadempiente sarà sostituito o affiancato. Alcuni Settori non sono stati ancora assegnati. Per le Strutture consiliari e Dipartimenti non c’è bisogno di Progetti. Un appunto su un Settore specifico va fatto: la Camera Arbitrale. Il Presidente voleva escluderla, ma il Consigliere Tesoriere cercherà di farla funzionare. Ma resta a scadenza. Il Presidente, come anticipato nella propria comunicazione di insediamento, informa il Consiglio che assegnerà ai Consiglieri la delega a predisporre dei Progetti da sviluppare in Settori specifici dell’attività forense e che ciascun Consigliere dovrà preparare un programma da portare a compimento entro tre mesi, attenendosi ai seguenti principi: 1) in primo luogo i Consiglieri delegati dovranno predisporre un Progetto di Settore e presentarlo al Presidente per l’approvazione; 2) nel Progetto il Consigliere delegato dovrà anche indicare i nominativi dei Colleghi del cui ausilio riterrà di doversi avvalere, designando contestualmente i responsabili del progetto; 3) in virtù del principio di massima partecipazione degli iscritti, nessun Collega potrà partecipare a più di un Progetto; 4) chi è stato designato come componente di un Progetto non potrà mancare alle riunioni, agli incontri o agli eventi fissati dal Consigliere delegato, per più di due volte in un anno; 5) portati a termine i Progetti trimestrali, i Consiglieri delegati dovranno presentare al Presidente un nuovo Progetto, specificando il tempo necessario per concluderlo; 6) in caso di mancato conseguimento degli obiettivi prefissati, il Consigliere inadempiente verrà sostituito o, quantomeno, affiancato da altro Consigliere. In buona sostanza, non sarà più ammesso, come succedeva negli anni passati con alcune Commissioni, che un Consigliere riunisca i Colleghi scelti per supportarlo una volta ogni due o tre mesi o, peggio ancora, solo in prossimità delle scadenze elettorali».

Accipicchia che decisionismo e che piglio!! Gli stessi Consiglieri che pendono dalle labbra di Vaglio hanno un sussulto, ritenendo arduo – se non con un forte impegno e con molta dedizione – riuscire a raggiungere gli ambiziosi risultati impostigli dal loro Presidente. Ad ogni modo molti si danno subito da fare per evitare di dover subire la collera di Vaglio, che li accuserebbe – pure loro – di “riunire i Colleghi scelti per supportarlo una volta ogni due o tre mesi o, peggio ancora, solo in prossimità delle scadenze elettorali”. Si sottintende, cioè, che i precedenti Commissari – ripetesi, molti dei quali sono oggi gli stessi “progettisti” – erano dei fannulloni. La progettualità è partita, dunque, il 1° marzo. Sto scrivendo il primo giugno ed i tre mesi assegnati sono scaduti. Facciamo allora una capatina sul sito internet dell’Ordine e vediamo, sul menu di sinistra, di entrare nella voce “Progetti Consiliari di Settore”. Ci accorgiamo subito che, ad onta del “piglio vagliano”, alcuni progetti sono vuoti, senza colleghi indicati come componenti del Settore: non hanno fatto nulla, manco uno sbadiglio. Niente di niente, nada de nada. Com’è il caso del Settore “Sport”, di quello “Tributario e sanzioni amministrative”, e poi “Rapporti con le Istituzioni”, “Proprietà e locazioni”, “Consumatori”, “Responsabilità civile”, e così via. Zero spaccato. Poi, altra falla, piuttosto evidente. Il punto 3 del “decalogo” (una sorta di dodici tavole) impone che “nessun Collega potrà partecipare a più di un progetto”. Mi spiace, ma ne trovo alcuni che sono in diversi progetti. Sarà stata una svista dei coordinatori…. Il mio amico Carlo Giacchetti, ad esempio (non me ne voglia) si trova addirittura in 3 progetti diversi: difese d’ufficio, penale, negazionismo. Ma non è il solo: il collega Vecchio sta nel progetto di procedura civile “ma anche” (per dirla alla Veltroni) in quello della Famiglia. Ancora: Ottorino Agati, mio collega attivo anche su Twitter, sta nel settore Difese d’ufficio ed in quello della Famiglia. Capiamoci: che ci siano colleghi volenterosi che sacrificano il loro tempo per dare un servizio agli altri è meritorio ed encomiabile ed io non limiterei affatto il loro impegno: ma Vaglio lo ha voluto fare e poi, però, omette ogni controllo al riguardo! Potrei continuare, ma non ne ho voglia. Sta di fatto che prima di sputar veleno su quel che è stato compiuto nel passato, Vaglio avrebbe dovuto preventivamente accertarsi se fosse capace almeno di fare altrettanto. Sarebbe poi il caso di andarsi a vedere se nei “tre mesi” assegnati dal “comandante” i progetti si siano davvero esauriti e con che tipologia di contenuti o con quali risultati concreti per l’Avvocatura romana. E, infine, quanti colleghi latitanti siano stati, per inerzia, espulsi (ma i cartellini rossi Vaglio li deve aver lasciati tutti sulla Costa Concordia…), quanti Consiglieri inoperosi sostituiti. Ma qui, forse è meglio essere pietosi….

2 Responses to “Chiacchierate serafiche, al tramonto”

  1. Antonio scrive:

    Preciso, incisivo, didattico e iinformativo.
    Lezioni di deontologia forense?
    Complimenti per il taglio: se avrò qualche storiella istruttiva te la manderò.

    Buona Liberazione e Cari Saluti,

    Antonio

  2. Trovo molto giusto quanto e stato scritto e approvo in tutti i punti.

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