Avvocati-dipendenti: la tassa di iscrizione all’Albo la paga l’Ente (*)

Avvocati-dipendenti: la tassa di iscrizione all’Albo la paga l’Ente (*)

Tre avvocati dipendenti del Comune di Treviso hanno impugnato con ricorso straordinario al Capo dello Stato la delibera della giunta municipale con la quale si è stabilito, in sede di regolamentazione dell’Avvocatura civica, che il costo dell’iscrizione annuale all’Ordine degli avvocati debba gravare sui singoli dipendenti anziché sul Comune stesso. Il Consiglio di Stato (I Sez.), con il parere reso nell’Adunanza del 23 febbraio, qui commentato, ha ritenuto fondate le censure sollevate dai ricorrenti, con motivazione ineccepibile sul piano logico e giuridico, propendendo per l’illegittimità di quella deliberazione comunale.

Il tentativo di far gravare direttamente sui singoli dipendenti l’importo previsto dagli Ordini professionali affinchè ne sia assicurata l’iscrizione al relativo Albo di appartenenza è antico. Con il pretesto, piuttosto evidente, di non poter far gravare sull’Ente oneri finanziari non previsti espressamente da alcuna norma di legge a carico del bilancio pubblico, molte Amministrazioni pubbliche hanno adottato regolamentazioni volte ad addossare al personale interessato le spese in questione: come se il professionista, assunto specificamente dall’Ente per svolgere una mansione per il cui espletamento è indispensabile essere iscritto ad un Albo tenuto da un Ordine professionale, si avvantaggi “direttamente” di quella iscrizione e sia perciò costretto a sostenere personalmente i costi della permanente appartenenza all’Ordine stesso.

Quel tentativo scellerato quanto ipocrita (è innegabile che la tassa annuale di iscrizione ad un Albo non raggiunge il costo di un pieno di benzina di un’auto blu che porta a spasso qualche assessore spesso analfabeta) di far pagare ai singoli gli importi per il rinnovo dell’iscrizione è stato in qualche circostanza avallato da altrettanto miopi decisioni della Corte dei conti. Qualche magistrato contabile, attento al solito più alla pagliuzza che alla trave, ha sostenuto che l’obbligo di versare il contributo di iscrizione (che a dire il vero la Corte di cassazione, con recentissima sentenza, ha stabilito avere vera e propria natura di tassa: cfr. Cass. 26 gennaio 2011 ord.za n. 1782) debba gravare sul professionista-dipendente, essendo legato ad un requisito indefettibile per poter svolgere il servizio professionale in favore del proprio Ente. V’è da dire che oltre alle decisioni della Corte dei conti citate nel parere in commento, v’è anche quella – ancora più recente – della Sezione marchigiana (3 giugno 2008 n. 3).

La posizione delle sezioni regionali della Corte dei conti, in buona sostanza, per quanto attiene ai dipendenti avvocati iscritti nell’elenco speciale dell’Albo, si  fonda sulla convinzione che l’iscrizione all’albo professionale, anche se necessaria per lo svolgimento dell’attività svolta dal dipendente per l’Amministrazione di appartenenza, non sia effettuata nell’esclusivo interesse dell’ente stesso-datore di lavoro.

Orbene, dissentendo dall’impostazione assai riduttiva che alla questione è stata data da taluni collegi della Corte dei conti, oggi il Consiglio di Stato – condividendo la diversa interpretazione fornita sul punto dalla Suprema Corte di cassazione – ha stabilito, con motivazione logicamente ineccepibile (almeno con riferimento alla categoria degli avvocati) che la tassa di iscrizione la debba pagare l’Ente datore di lavoro.

Il ragionamento svolto dal Supremo Consesso amministrativo si fonda su tre linee direttrici: a) l’iscrizione all’Albo è funzionale allo svolgimento di un’attività professionale svolta in regime di vincolo di esclusività nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente (non si verte, quindi, in una ipotesi in cui il professionista è libero di difendere anche altri soggetti oltre al proprio Ente, al quale è legato da contratto di lavoro esclusivo); b) in generale, il mandante deve tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito per effetto dell’esecuzione dell’incarico; c) gli stessi Avvocati erariali (pubblici per antonomasia) esercitano finanche senza essere iscritti ad alcun Albo e, quindi, non pagano alcuna tassa di iscrizione.

La ragione dirimente, ad avviso di chi scrive, sta nella considerazione svolta sub a) ed è necessario che la Corte dei conti distingua, d’ora in poi ed una volta per tutte, gli avvocati da tutti gli altri professionisti dipendenti. In realtà un geometra dipendente di un Comune, assunto come tale, conserva per sua scelta l’iscrizione all’Albo, atteso che (salvo casi eccezionali) egli non espleta la professione in modo analogo a come la esercitano i suoi colleghi liberi professionisti; per gli avvocati, invece, le cose stanno diversamente. Un avvocato pubblico si distingue da quello del libero foro esclusivamente per aver un “cliente” solo: ma l’esercizio della professione tra i due avvocati avviene in modo assolutamente identico. L’avvocato viene infatti assunto dall’Ente pubblico, reclutato attraverso un concorso che di norma impone già di essere iscritti all’albo, allo scopo prevalente di garantire – in favore e nell’interesse dell’Ente medesimo – il patrocinio difensivo dinanzi alle Autorità giudiziarie. Per tale attività, per lo ius postulandi che “serve” al datore di lavoro e non certo al dipendente, è necessario mantenere l’iscrizione all’albo. Quindi non si vede perché una vera e propria spesa necessitata (che non è certo quella, ad esempio, dell’aggiornamento professionale, ovvero quella per raggiungere il luogo di lavoro) debba esser sostenuta dal dipendente. Il costo di tale spesa è indispensabile per lo svolgimento di un’attività professionale svolta nell’esclusivo interesse dell’Ente pubblico, nel senso che essa è obbligatoria per il perseguimento degli obiettivi istituzionali di quest’ultimo, là dove la concreta attuazione della prestazione del lavoratore non può prescindere da quello specifico fattore di produzione dell’iscrizione all’Albo  del proprio dipendente-avvocato.

Com’è noto, secondo la giurisprudenza di legittimità, in materia di individuazione del soggetto tenuto ad accollarsi un onere economico si deve far riferimento ai seguenti parametri: a) l’interesse soggettivo deve esser valutato in relazione alla spesa specifica, e non può risiedere nel vitale ma generico interesse della persona a realizzare qualsiasi condizione richiesta e necessaria a fini occupazionali; b) detto interesse va ancora individuato in relazione alla spesa specifica per il singolo datore di lavoro, in relazione alle condizioni lavorative comuni a tutti i lavoratori, anche distinti per categorie.

In applicazione di siffatto principio di diritto, la Corte di cassazione (anche sulla scia di pregresse decisioni dei giudici di merito più attenti: cfr. T. Torino 11 luglio 2001 n. 4549; App. Torino 10 marzo 2003 n. 338) è giunta alla conclusione che mentre le spese per gli studi universitari e l’acquisizione dell’abilitazione alla professione forense sono da considerarsi come sostenute nell’interesse esclusivo del dipendente pubblico, viceversa una volta acquisita l’abilitazione professionale le spese necessarie per l’esercizio della professione vanno ascritte all’interesse esclusivo del datore di lavoro, anno per anno, non attenendo più all’acquisizione dello status personale del medesimo dipendente avvocato: con la conseguenza che questi ha diritto a riceverne il rimborso.

Trattandosi, infine, di una “spesa” non appare condivisibile l’opinione di chi suggerisce di individuare nell’ambito degli strumenti di contrattazione collettiva una clausola che attribuisca  l’onere specifico di cui trattasi  a carico delle Amministrazioni, atteso che in virtù del principio di cui all’art. 2, comma 3, del T.U. sul pubblico impiego, con  i contratti (collettivo e individuale) vengono riconosciuti “trattamenti economici” di tipo remunerativo e non “rimborsi spesa”, che invece  sono sempre dovuti al dipendente quando l’esborso è sostenuto nell’interesse esclusivo del datore di lavoro.

Si auspica che questa pronuncia del Consiglio di Stato possa essere quella davvero definitiva sulla materia e che non si sia costretti, nel futuro, ad assistere a penosi “rigurgiti” ispirati da demagogiche esigenze di contenimento della spesa pubblica.

Rodolfo Murra

(*) Commento pubblicato sul n. 36 del 2011 di Guida agli Enti Locali.

 

 

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