Il rito sull’accesso e sul silenzio nel nuovo Codice del processo amministrativo

Il rito sull’accesso e sul silenzio nel nuovo Codice del processo amministrativo

Il rito sull’accesso e sul silenzio nel nuovo Codice del processo amministrativo (*)

1.- Premessa. Il D.L.vo 2 luglio 2010 n. 104 ha approvato “il Codice del processo amministrativo” e ne ha fissato l’entrata in vigore il 16 settembre 2010. Il testo normativo è figlio, com’è noto, da un lato dell’art. 44 della L. n. 69 del 2009, che ha appunto delegato il Governo a provvedere al “riassetto del processo amministrativo”, e dall’altro di un corposo lavoro da parte di tecnici costituitisi in apposita Commissione.

Una delle linee direttrici del riassetto, imposto dall’art. 44 citato, era quello di assicurare la concentrazione delle tutele.

Inoltre la delega, con riguardo ai riti speciali, contiene i seguenti obiettivi e limiti: “procedere alla revisione e razionalizzazione dei riti speciali, e delle materie cui essi si applicano, fatti salvi quelli previsti dalle norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige”.

Secondo la dottrina più avveduta, in un’epoca che ha ripreso una tendenza alla decodificazione che era stata abbandonata per tutta la seconda metà del novecento, la disciplina pretoria e normativa del processo amministrativo aveva raggiunto una indiscussa maturità di approfondimento scientifico tale da essere riuscita ad elaborare principi ed istituti propri e peculiari, così da essere pronta ad uno sforzo di tipo “codificatore”.

Il Libro quarto del Codice si occupa di regolare sia l’ottemperanza che tutti i riti speciali (accesso, silenzio, ingiunzione, elettorale, nonché quelli dettati per “speciali controversie”), e lo fa con quattro Titoli costituiti da un gruppo di 21 norme (dall’art. 112 all’art. 132) che danno l’impressione della necessaria sinteticità.

Il principio di concentrazione delle tutele, per la parte che qui interessa, è stato attuato con una serie di tecniche che possono così di seguito essere sintetizzate:

– il commissario ad acta è espressamente qualificato quale organo ausiliario del giudice; con la conseguenza  che tutte le questioni sugli atti emessi dallo stesso rimarranno decise dal medesimo giudice dell’ottemperanza (art. 113 comma 6 C.p.a.);

– la possibilità della nomina del commissario ad acta già con la sentenza che definisce il giudizio in materia di silenzio (art. 117 comma 3 C.p.a.);

– l’attribuzione al giudice del potere di conoscere tutte le questioni relative alla esatta adozione del provvedimento richiesto, a seguito della sentenza in materia di silenzio (art. 177 comma 4 C.p.a.);

– la possibilità di impugnazione per motivi aggiunti il provvedimento espresso sopravvenuto o connesso, in materia di silenzio (art. 117 comma 5 C.p.a.);

– la possibilità (prevista implicitamente dall’art. 117 comma 6 C.p.a.) di definizione con lo stesso rito camerale sia della domanda avverso il silenzio sia della connessa domanda risarcitoria.

Ma di queste novità tratteremo un poco più avanti.

La dottrina amministrativistica si presenta divisa in punto di individuazione delle azioni di condanna in senso proprio: per alcuni queste ultime sono solo quelle che possono condurre alla formazione di un titolo esecutivo (oggi disciplinato dall’art. 155 C.p.a.) che consenta l’esecuzione forzata nelle forme del c.p.c. (art. 474). Secondo altro orientamento sono invece da considerare azioni di condanna nel processo amministrativo anche quelle che mettono capo all’emissione di pronunce che non si limitino a chiarire una situazione di incertezza, ma rechino espressamente anche l’imposizione di una condotta a carico della parte soccombente, indipendentemente dalla loro idoneità a formare un titolo esecutivo in senso stretto.

Pronunce “ordinatorie” di questo genere sono previste appunto nei giudizi sul silenzio-rifiuto e sull’accesso ai documenti amministrativi, oggetto della presente trattazione. E’ ovvio peraltro che tali pronunce non sono suscettibili di costituire titolo esecutivo ai sensi dell’art. 155 C.p.a. e dell’art. 474 C.p.c.: esse possono essere messe in esecuzione attraverso il giudizio di ottemperanza, oggi previsto dagli artt. 112-155 C.p.a. di cui ci ha parlato il Presidente Maruotti.

Il rito dell’accesso e contro il silenzio si svolge, per scelta di definizione del Codice, in camera di consiglio.

Il Codice determina tra udienza pubblica ed udienza camerale un rapporto tra regola ed eccezione: tale dato lo si ricava agevolmente dalle disposizioni che comminano la nullità nel caso in cui venga utilizzata la camera di consiglio invece dell’udienza pubblica (art. 87 comma 1 C.p.a.), e che viceversa rendono irrilevante l’errore contrario (art. 87 comma 4 C.p.a). Da ciò deriva che le fattispecie in cui utilizzare la camera di consiglio sono un tassative, senza possibilità di estensione in via interpretativa o analogica. E queste solo le seguenti:

a) ricorso in materia di accesso agli atti;

b) ricorso contro il silenzio;

c) ricorso in sede di ottemperanza;

d) ricorso in opposizione ai decreti che pronunciano l’estinzione o l’improcedibilità del giudizio.

La disciplina (oggi unitaria, in virtù del citato principio di concentrazione) dei riti in camera di consiglio risulta sensibilmente diversa rispetto a quella previgente e possono quindi annotarsi le seguenti differenze:

a) il termine di deposito del ricorso notificato viene ridotto a 15 giorni mentre, com’è noto, nel regime previgente il termine di deposito per il ricorso contro il silenzio e per il ricorso per l’accesso era sempre quello ordinario di giorni 30.

b) tutti i termini processuali vengono dimezzati, tranne quelli per la notifica del ricorso, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti. Tra questi, quello per la costituzione dell’Amministrazione resistente (30 giorni dal perfezionamento della notifica del ricorso nei propri confronti), quello per il deposito di documenti e memorie in vista dell’udienza (rispettivamente 20 e 10 giorni). Anche qui, nella disciplina previgente i termini processuali erano quelli ordinari.

c) la camera di consiglio è fissata d’ufficio alla prima udienza utile successiva al trentesimo

giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate (come si ricorderà, in precedenza, invece, era stabilito che i ricorsi avverso il silenzio-rifiuto e il diniego di accesso venivano decisi in camera di consiglio entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso).

d) il provvedimento giurisdizionale che definisce il procedimento consiste sempre in una sentenza in forma semplificata. Nel regime previgente, non era così: le sentenze in materia di tutela del diritto di accesso, ad esempio, non lo erano.

e) il termine lungo per proporre appello é quello ordinario ma dimezzato (e, visto che oggi è di sei mesi, il termine in questione risulta ridotto pertanto a tre mesi). Nel regime previgente i termini di appello erano differenziati, atteso che contro la sentenza che decideva il ricorso sul silenzio il termine era di 120 giorni, mentre avverso la sentenza che decideva il ricorso in materia di accesso il termine era di 30 giorni.

f) è possibile proporre ricorso incidentale. Nel vecchio sistema tale possibilità non era espressamente prevista.

g) è possibile proporre ricorso per motivi aggiunti. Per la precedente normativa ciò non era  in generale consentito, e ciò per la specialità del rito, ritenuta incompatibile con la proposizione di un’azione a contenuto annullatorio. L’impugnazione per motivi aggiunti era infatti esclusa nel caso del ricorso contro il silenzio ed era consentita, invece, nel ricorso per accesso agli atti ma solo quando si andava a censurare l’eventuale provvedimento confermativo del silenzio rigetto che fosse

sopravvenuto.

 

2.- Azione a tutela del diritto di accesso. L’azione in discorso com’è noto è stata introdotta in forma generalizzata con l’art. 25 L. n. 241/90[1]. Se la P.A. nega l’accesso ad un documento amministrativo (come definito dall’art. 22 comma 1 lett. d della L. n. 241/90) ovvero omette di rispondere all’istanza di accesso (nel qual caso, decorso il termine di 30 giorni dalla presentazione della domanda, si forma il c.d. silenzio-rigetto), è proponibile ricorso al TAR nel termine perentorio di trenta giorni.

Se il Giudice amministrativo accoglie il ricorso, “ordina” l’ostensione del documento alla P.A. (art. 116 C.p.a.).

Il giudizio, come osservato da autorevole dottrina (Travi), in caso di accoglimento del ricorso non attua una tutela costitutiva di annullamento del diniego di accesso (né, in caso di silenzio, si risolve in un generico ordine di provvedere) ma si conclude con un ordine specifico rivolto alla P.A. consistente nel dovere di esibire il documento amministrativo oggetto della domanda di accesso.

Secondo alcuni questo giudizio verterebbe su una posizione di vero e proprio diritto soggettivo: in tale prospettiva il provvedimento di diniego all’accesso non sarebbe oggetto di una impugnazione in senso proprio, giacché il processo concernerebbe direttamente il diritto del cittadino di accedere al documento nonché l’accertamento sulla sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per consentire detto accesso[2].

A sostegno di detta tesi viene fatto rilevare che l’art. 133 comma 1 lett. d) C.p.a. annovera le controversie sull’accesso tra quelle devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

In ogni caso, una volta che il giudice amministrativo abbia accertato che il privato ha titolo all’accesso, non c’è spazio per alcuna ulteriore attività amministrativa che valuti la fondatezza dell’istanza: il giudice infatti ordina alla P.A. di dar corso alla consegna materiale, ingiungendo l’esibizione del documento richiesto.

Va peraltro considerato che:

a)      esiste un termine perentorio per la proposizione del ricorso, a pena di decadenza (art. 166 comma 1 C.p.a.: su detta regola cfr. Ap. 18 aprile 2006 n. 6);

b)     in linea con la giurisprudenza precedente, il C.p.a. conferma il rito dell’accesso come appartenente ai principi generali del processo amministrativo (e non a quelli del processo civile, come poteva per contro far pensare appunto la locuzione “diritto di accesso”);

c)      quanto sopra implica la necessità che il ricorso sia notificato – nel termine decadenziale di trenta giorni decorrente dalla conoscenza del provvedimento o dalla formazione del silenzio impugnabile – ad almeno uno dei controinteressati (salva l’integrazione del contraddittorio da disporsi dal Presidente o dal Collegio, ex art. 49 C.p.a.), a pena di inammissibilità. In tale contesto non si può utilmente invocare né la disciplina dell’art. 102 C.p.c., in tema di litisconsorzio necessario, né quella dettata in tema di “beneficiari dell’atto illegittimo” di cui all’art. 41 comma 2 C.p.a.

A questo punto il diritto di accesso ai documenti amministrativi, a prescindere allora dalla sua qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo,  costituisce una situazione giuridica positiva dal carattere essenzialmente strumentale, come dimostrato dalla circostanza che la legge stabilisce un termine di decadenza per la proposizione dei ricorsi.

Da ciò deriva che il carattere decadenziale del termine comporta che la mancata impugnazione del diniego nel termine, non consente né la reiterabilità dell’istanza di accesso (a meno che non siano sopraggiunti fatti nuovi) né l’impugnazione del successivo diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere meramente confermativo del primo.

In materia di accesso sorge così la questione dell’individuazione del controinteressato. Sul piano procedimentale l’art. 22 comma 1 lett. c)  L. n. 241/90 individua come controinteressati all’accesso “tutti i soggetti individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio del diritto di accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”.

E siccome la legge sostanziale prima, ed il regolamento statale poi (D.P.R. n. 184 del 2006) hanno introdotto la tutela del controinteressato (atteso che prima la sua posizione giuridica era solo di riflesso garantita dalle decisioni della P.A.), di conseguenza anche la legge processuale non poteva non prevedere un coinvolgimento nel giudizio del controinteressato medesimo.

Sullo svolgimento del giudizio vi sono diversi elementi di semplificazione.

a)      Si segue, come detto, il rito camerale (ma l’eventuale trattazione in pubblica udienza, peraltro, non è causa di nullità della decisione: art. 87 comma 4 C.p.a.).

b)     La parte può stare in giudizio personalmente. Da parte sua la P.A. può stare in giudizio avvalendosi di un dipendente, non necessariamente appartenente al ruolo legale. La ratio della disposizione (peraltro l’ultima novella della L. n. 241/90 ha previsto la semplice qualifica impiegatizia, e non più necessariamente dirigenziale, del soggetto che patrocina) è chiara: rendere più agevole la tutela giurisdizionale in coerenza con le ragioni che hanno storicamente condotto al riconoscimento legislativo del diritto di accesso ai documenti amministrativi.

c)      Dovendosi seguire il rito camerale, ai sensi dell’art. 87 comma 3 C.p.a., tutti i termini processuali sono dimidiati, ad eccezione di quello per la notifica del ricorso (che, ripetesi, qui è di 30 giorni ope legis) e quelli per eventuali ricorsi incidentali o motivi aggiunti (anche per essi il termine deve ritenersi di trenta giorni).

d)     Conseguentemente, i termini per depositare documenti, memorie e repliche sono di 20, 15 e 10 giorni liberi (anziché di 40, 30 e 20) prima della camera di consiglio.

e)      Il ricorso è definito con sentenza in forma semplificata.

f)       Se accoglie il ricorso il TAR ordina l’esibizione di documenti (sta qui il carattere “ordinatorio” della pronuncia). Si noti che le facoltà concesse al giudice sono quelle di accertare la fondatezza dell’istanza di accesso del privato alla documentazione richiesta. In questa prospettiva il diniego, espresso o tacito, opposto all’istanza di accesso da parte della P.A. appare risolversi in un presupposto processuale, in assenza del quale il ricorso dovrebbe essere dichiarato inammissibile.

g)      Se è già in corso un giudizio fra le parti, cui la richiesta di accesso è in qualche modo connessa, il diritto di accesso è tutelato, anziché onerando la parte dal proporre un giudizio autonomo, con la proposizione di un’istanza da notificare alle altre parti e da depositare nella segreteria del giudice. L’istanza è decisa con separata ordinanza ovvero con la sentenza che definisce il giudizio principale.

h)      Tutela alternativa a quella giurisdizionale. E’ possibile anziché adire il giudice inoltrare una doglianza alla Commissione per l’accesso che siede presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ovvero rivolgersi al difensore civico per chiedere il riesame della domanda di accesso o per far sindacare l’illegittimità del silenzio serbato dalla P.A. su di essa. In realtà non si tratta di una rigorosa alternativa atteso che non vi è, infatti, una rinuncia alla tutela giurisdizionale a seguito dell’interpello della Commissione o del difensore civico (non quello comunale, però, il quale, com’è noto, è stato soppresso con la legge finanziaria per il 2010). In questo caso, invero, la tutela giurisdizionale può essere solo differita, in quanto potrà esperirsi dopo la decisione dell’organo amministrativo, come dispone l’art. 25 comma 4 della L. n. 241/90.

i)        L’appello al Consiglio di Stato segue, come svolgimento, le regole analoghe a quelle dettate nel giudizio di primo grado. Il termine per proporre il gravame è di trenta giorni dalla notificazione della sentenza.

3.- L’azione avverso il silenzio. Il silenzio della P.A. è qui apprezzato come silenzio rifiuto, inteso cioè come rifiuto di adempiere ad un obbligo di provvedere. Ovviamente affinché si possa configurare il silenzio impugnabile occorre la sussistenza di un obbligo di provvedere in capo alla P.A.: ciò che non si verifica, quindi, allorché la legge rimetta alla piena discrezionalità della P.A. sullo stesso “an”. Un esempio agevole in questo senso è la materia dell’autotutela.

Il ricorso presuppone una legittimazione attiva da identificare nella titolarità di un interesse legittimo: chi agisce deve cioè postulare e dimostrare di vantare una posizione differenziata e qualificata rispetto al potere amministrativo. Si tratta di colui, in sostanza, che si sia rivolto all’Amministrazione per ottenere l’ampliamento di una sua sfera giuridica.

Com’è noto sino alla riforma che nel 2005 ha modificato la L. n. 241/90 occorreva sia la presentazione di una istanza e, dopo un determinato termine, la notificazione di una apposita diffida. Nel caso in cui i provvedimenti dovevano scaturire da procedimento ad impulso officioso si riteneva sufficiente la notifica della sola diffida.

Con la L. n. 15/05 e, poi, col D.L.vo n. 35 del 2005 (convertito nella c.d. Legge sulla competitività, n. 80/05) il silenzio si forma direttamente alla scadenza del termine dettato per la conclusione del procedimento, stabilito dall’art. 2, commi 2-5, della stessa L. n. 241/90 ovvero dalla disciplina ad hoc dettata dalle norme regolanti lo specifico procedimento, senza più la necessità di notificare la predetta diffida. L’art. 31 C.p.a. conferma la regola introdotta nel 2005.

Nell’azione contro il silenzio non v’è impugnazione di un provvedimento, neppure di carattere tacito: secondo alcuni, infatti, l’azione avrebbe natura “preventiva”. Diversa in parte è l’impostazione della giurisprudenza, ad avviso della quale alla base dell’azione vi sarebbe pur sempre la lesione di un interesse legittimo.

Il ricorso di cui trattasi non è soggetto all’ordinario termine decadenziale, ma può essere proposto finché perdura il silenzio dell’Amm.ne, con il limite dell’anno dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento: la regola, già entrata in vigore nel 2005, è ora ribadita dall’art. 31 comma 2 C.p.a.

Il giudice amministrativo, se accoglie il ricorso, ordina all’Amministrazione di provvedere entro un congruo termine (di regola, non superiore a 30 giorni), come dispone l’art. 117 C.p.a.; tale ordine può anche avere un contenuto “specifico”, in quanto il giudice può conoscere pure della fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio e sottesa all’istanza rivolta alla P.A., sia pure soltanto quando si tratti di attività amministrativa vincolata ovvero quando risulti che non residuino margini di esercizio della discrezionalità e che non siano necessari adempimenti istruttori da parte dell’Amministrazione (art. 31 comma 3 C.p.a.).

Questione aperta e non risolta dal Codice è quella relativa al se possano ancora essere riservate alla P.A. le valutazioni ricondotte alla c.d. discrezionalità tecnica.

Qualche problema interpretativo pone la norma che, per la prima volta, ha previsto la possibilità che sia configurabile la posizione di un controinteressato anche nel ricorso avverso il silenzio. Si tratta di una sostanziale novità stante il fatto che assai rare erano le pronunce che, prima dell’entrata del Codice, avevano profilato questa possibilità[3]. Il problema qui è sollevato dalla circostanza che nel giudizio contro il silenzio non si attacca un provvedimento, ma un comportamento (per giunta, appunto, silente). Dunque potrebbe individuarsi un controinteressato nella stessa istanza di avvio del procedimento formulata da parte di colui che poi diventerà ricorrente al TAR, a condizione che costui in quella stessa istanza abbia in un certo senso fatto riferimento all’esistenza di un soggetto che vanta una posizione diretta e contraria a quella a lui palesata (richiedente l’emanazione del provvedimento). In disparte questa ipotesi, è certamente controinteressato chi ha presentato una domanda di accesso in seno al procedimento amministrativo del quale il ricorrente contesta la mancata conclusione, nonché ogni altro soggetto che, a seguito di una istruttoria processuale, sia stato individuato dal Collegio come portatore di una situazione giuridica soggettiva incompatibile con quella recata dal ricorrente.  In questo caso è piuttosto evidente l’obbligo in capo al giudice amministrativo di procedere ad impartire l’ordine di integrazione del contraddittorio ex art. 49 del Codice.

Altra ipotesi configurabile è quella in cui il terzo, che assume essere danneggiato dal mancato esercizio i poteri sanzionatori da parte di un Comune destinatario di una denuncia di inizio attività, impugni il silenzio serbato dall’Amministrazione sulla sua istanza di adozione di atti repressivi od inibitori[4]: in questa fattispecie è certamente controinteressato il beneficiario della d.i.a.

Sullo stesso piano si pone colui che non vuole che l’Ente rilasci un titolo concessorio a terzi, i quali lo sollecitano impugnando l’inerzia manifestata dalla stessa P.A.[5]

Il Codice, sulla contestazione del silenzio, sembra aver introdotto una tutela modellata sul modello dell’azione di adempimento.

Lo svolgimento del processo è regolato dall’art. 117 C.p.a., ed in particolare:

a)      Il rito è sempre quello camerale, con termini dimidiati ex art. 87 C.p.a.

b)     La decisione assume la forma della sentenza semplificata.

c)      Il Giudice nomina, ove occorra, un Commissario ad acta già con la sentenza che conclude il giudizio oppure successivamente, ad istanza di parte.

d)     Il Giudice conosce anche di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto (comprese quelle inerenti gli atti adottati dal Commissario).

e)      Se dovesse sopravvenire il provvedimento dell’Amministrazione, ovvero un atto comunque connesso con la pretesa fatta valere dal privato e quindi con l’oggetto della lite, è oggi pacificamente ammessa la proposizione di motivi aggiunti all’interno del giudizio sul silenzio, nei termini e secondo il rito previsto per il provvedimento sopravvenuto (art. 117 comma 5 C.p.a.).

f)       In caso di domanda risarcitoria proposta con il ricorso ex art. 117 C.p.a. il giudice può definire il giudizio con il rito camerale la domanda sul silenzio e trattare col rito ordinario la domanda di danni: il che realizza un vantaggio per una più celere definizione del giudizio sul silenzio. In alternativa, in omaggio al principio di prevalenza del rito ordinario se connesso ad uno speciale (art. 32 comma 1 C.p.a.), si applica il primo ad entrambe le domande.

 

Rodolfo Murra


(*) Testo della relazione svolta al Convegno giuridico dal titolo “Il Codice del Processo amministrativo a sei mesi dalla sua entrata in vigore”, organizzato dal Centro italiano di studi amministrativi e tenutosi il 13 aprile 2011 alla Libera Università Luspio.

[1] Si parla di forma “generalizzata” atteso che, oltre del diritto di accesso come disciplinato dalla legge n. 241/90, è necessario ricordare che esistono altri tipi di accesso nell’ambito dell’attività amministrativa lato sensu intesa, che sono disciplinati da leggi diverse e che seguono un diverso procedimento (che possono anche avere un giudice diverso da quello amministrativo). Ad esempio, per il TU. Enti locali D.L.vo n. 267/2000 art. 43 comma 2 (che sul punto rievoca una norma del 1985) i consiglieri comunali e provinciali possono accedere a tutti i documenti che riguardano  l’Amministrazione. La ratio della norma è ovviamente quella di consentire all’eletto dal popolo di svolgere correttamente e completamente il suo mandato. L’art. 146 del D.L.vo n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private) prevede che, fermo restando quanto previsto dal codice di protezione dei dati personali, per accedere alle informazioni personali, “le imprese di assicurazioni che esercitano nel ramo della responsabilità civile sono tenute a consentire ai contraenti ed ai danneggiati il diritto di accesso agli atti di conclusione dei procedimenti …., constatazione e liquidazione che li riguardano”; si tratta di una forma speciale di accesso nei confronti di un soggetto che svolge un’attività di pubblico interesse, che ben potrebbe rientrare nell’ambito della legge n. 241/90, che però è assoggettata ad un procedimento e ad un rito speciale, perché entro 60 giorni l’assicurato o il danneggiato se non ottengono la documentazione richiesta possono fare reclamo all’ISVAP. Esiste poi il c.d. “accesso ambientale” previsto dalla L. n. 195/05 (c.d. Codice dell’ambiente). È un accesso peculiare nel suo contenuto, non c’è però un giudice speciale, perché sono diversi solo i presupposti e il contenuto, ma il rito è quello previsto dalla L. n. 241/90. Si tratta di un’ applicazione della normativa comunitaria ed in particolare della direttiva n. 4 del 2003. Si badi che mentre la L. n. 241/90 si riferisce espressamente ai soli documenti amministrativi, il D.L.vo n. 195/05 riguarda chiaramente anche le informazioni, cioè non solo i documenti ma qualsiasi altro tipo di dati e notizie.

 [2] Secondo questa visione il diritto d’accesso sarebbe  ricostruibile quale situazione di diritto soggettivo, e ciò sia in base alla sua formale definizione come tale, sia per gli indubbi elementi della sua concreta disciplina, quali, in particolare: 1) la mancanza di discrezionalità per le Amministrazioni, una volta verificati ed accertati i requisiti per l’accesso, nell’adempiere alla pretesa del soggetto privato di prender visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi; 2) il fatto che il documento amministrativo non debba necessariamente concernere uno specifico procedimento; 3) la devoluzione delle controversie relative alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e la conseguente previsione della possibilità che tale giudizio si concluda con l’ordine di un facere per la P.A. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 7 del 2006 ha affermato il principio che la situazione giuridica soggettiva del diritto di accesso non fornisce un’utilità finale, che è invece tipica del diritto o dell’interesse, perché si tratta di una situazione giuridica soggettiva che offre all’interessato poteri di natura procedimentale volti a tutelare un’altra (e quindi diversa) situazione giuridica soggettiva.

[3] In tal senso cfr. TAR Lecce, II Sez., 11 febbraio 2010 n. 551 e Lazio, Sez. III quater, 5 febbraio 2008 n. 959 che hanno individuato come controinteressati in un giudizio rivolto all’annullamento del silenzio serbato dalla P.A. tutti coloro che ricevono un pregiudizio dalla emananda pronuncia, ancorchè limitata all’ordine diretto alla P.A. di provvedere. Molto netta su questo profilo si palesa la recente (ma relativa ad un giudizio ovviamente avviato in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice) pronuncia del TAR Liguria 3 febbraio 2011 n. 207, la cui massima è la seguente: “nulla osta alla riconoscibilità in astratto della figura del controinteressato nell’ambito dei giudizi di accertamento che si celebrano dinanzi al giudice amministrativo – categoria nella quale deve iscriversi anche il giudizio del silenzio – in quanto se è vero che la regola che impone la notifica del ricorso ai controinteressati, risulta concepita e formulata con specifico riferimento ai giudizi tipicamente impugnatori, è anche vero che essa esprime il principio generale della necessaria instaurazione di un contraddittorio processuale integro, che comprenda, cioè, tutti i soggetti direttamente interessati dall’esito del ricorso e, che, quindi, l’onere con la stessa imposto deve intendersi applicabile a tutti i ricorsi (anche non preordinati, quindi, all’annullamento di un atto amministrativo), in cui risulti configurabile l’esistenza di soggetti titolari di un interesse contrario a quello di chi li propone e che potrebbero, pertanto, restare pregiudicati dal ricorrente, come nel caso del giudizio del silenzio nel quale, quantomeno in termini di prospettazione, come nel caso in cui parte ricorrente invochi una statuizione del giudice nel senso dell’individuazione dei provvedimento che l’amministrazione debba adottare ovvero di provvedimenti vincolati (come ad esempio in caso di atti sanzionatori)”. In questo senso, già prima, TAR Lazio, II Sez., 5 gennaio 2010 n. 48.

 [4] Anziché proporre un’autonoma azione di accertamento per far constatare che non sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base della d.i.a., come la giurisprudenza parrebbe gradire: cfr. sul tema specifico TAR Salerno, II Sez., 8 febbraio 2010 n. 1291.

[5] Nel giudizio per la declaratoria dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione sulla diffida a definire la domanda di condono e a verificare l’ottemperanza all’ordinanza che ha disposto la rimozione della canna fumaria, il vicino è sicuramente titolare di un interesse a contraddire difensivamente sulla legittimità del comportamento dell’Amministrazione e assume pertanto la veste di controinteressato. Dalla pronuncia giurisdizionale, che mira ad attivare i poteri dell’Amministrazione nei confronti del proprietario del fabbricato confinante con il ricorrente, possono infatti derivare effetti pregiudizievoli per lo stesso, che esigono un suo coinvolgimento come parte necessaria del relativo giudizio. Il difetto di notificazione del ricorso al vicino comporta, pertanto, una non corretta instaurazione del contraddittorio che conduce inevitabilmente all’inammissibilità del gravame (così TAR Napoli, III Sez., 20 maggio 2009 n. 2774).

 

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