L’etica forense al cospetto dell’autorità del giudice

L’etica forense al cospetto dell’autorità del giudice

Rodolfo Murra

 

L’etica forense al cospetto dell’autorità del giudice (*)

 

1. – Il titolo della mia relazione odierna potrebbe esser equivocato con quel riferimento al potere che l’Ordinamento giuridico attribuisce ai giudici italiani, in termini di esercizio di “autorità”. Potrebbe essere equivocato, appunto, perché in un Convegno che ha come oggetto la deontologia, parlare di “etica al cospetto del potere” rischia di far assumere al discorso i toni di un’analisi corporativa, ovvero superficiale o, infine, ontologicamente scorretta. Se è vero, infatti, che alla base di un sano concetto di etica professionale si deve necessariamente collocare, nei rapporti tra avvocati e giudici, il rispetto reciproco che ponga le basi per una relazione pari ordinata, non si può negare, al contempo, l’esistenza di una realtà oggettiva che affonda le sue radici nella storia repubblicana e nelle stesse norme della nostra Carta costituzionale.

         Il giudice rappresenta il funzionario dello Stato cui è attribuito il potere dello iuris dicere, di porre la parola fine ad una controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita conteso nel processo giurisdizionale, di far finire i giorni della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria[1]. Si tratta, come noto, dell’esercizio di uno dei tre poteri nei quali si articola la struttura fondamentale dello Stato, che non può essere negato né facilmente obliterato. Il giudice è per sé stesso “un’Autorità”.

         L’avvocato, invece, non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia, ma da essa non può prescindersi se si vuole affrontare, con paziente e coscienziosa volontà, il tema – delicatissimo – della deontologia forense. I due ruoli, quello del giudice da un lato e quello dell’avvocato dall’altro, sotto il profilo istituzionale non stanno sullo stesso identico piano, checché se ne dica o si voglia far credere quando si parla delle relative figure professionali come “entrambi operatori del diritto” accomunati dalle difficoltà in cui versa il “sistema Giustizia”. Il giudice esercita un potere, l’avvocato no.

         È da questa banale considerazione che si deve muovere l’analisi sulla deontologia forense se si vuole, serenamente, giungere ad una conclusione che abbia a cuore le sorti del nostro Paese in termini di miglioramento del servizio che i cittadini chiedono sia erogato dalla “giustizia”. Ciò, evidentemente, non equivale a dire che il ruolo dell’avvocato – bene inteso – sia “inferiore” a quello del magistrato, o secondaria la sua funzione solo perché l’esercente la professione forense non è titolare di un potere statuale. Se, anzi, da taluni si sostiene questo è proprio a causa di una delle storture del sistema, purtroppo abbastanza frequente e ricorrente, per la quale l’avvocato si ritiene essere in rapporto di sudditanza psicologica con il giudice, di subordinazione culturale e professionale, il che non è né – e ciò che è più importante ai fini della odierna riflessione – può essere.

         È bene, allora, che il messaggio di quello che è un corretto concetto della deontologia forense arrivi soprattutto ai giovani e sia da essi recepito in fretta ed in tutta completezza, onde evitare di perpetrare prassi di scadimento della dignità della toga e di svilimento della nobile professione forense.

 2.- Deontologia parrebbe essere un termine coniato dal filosofo Jeremy Bentham, autore nel 1834 di un saggio dal titolo “Deontologia, o la scienza della moralità”, per designare la propria dottrina utilitaristica dei doveri. Col tempo, il termine è stato più diffusamente impiegato per tentare di spiegare lo studio di determinati doveri in rapporto a particolari situazioni sociali. Oggi, nel linguaggio comune, il termine deontologia indica quel complesso di regole (o “canoni”) utili ad indirizzare correttamente l’esercizio di una professione, specie se questa abbia riflessi in campo pubblicistico. In sostanza la deontologia è quel sistema di disposizioni, frutto ed espressione di principi morali, che debbono ispirare i comportamenti di chi esercita un’attività professionale al servizio degli altri.

         Negli ultimi anni sono fioriti numerosi codici deontologici, adottati dagli ordinamenti interni delle singole professioni; a seguito di talune iniziative governative (si pensi agli anni in cui era Ministro della funzione pubblica Sabino Cassese) si è persino ritenuto di approvare, all’interno dei contratti collettivi del settore del pubblico impiego, norme integranti codici comportamentali che orientassero la condotta dei dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici. Quindi, a fianco dei solenni impegni che gli esercenti le professioni più antiche assumevano, com’è il caso delle formule dei giuramenti pronunciate all’indomani dell’abilitazione, probabilmente ritenuti insufficienti, si collocano Codici etici le cui norme sono sicuramente ritagliate dall’osservazione pratica della realtà quotidiana: si tratta, cioè, di regole empiriche, principi ricavati da quella che viene definita “distillazione della prassi quotidiana”. Giustamente, allora, è stato detto che la deontologia costituisce la massima espressione del diritto “vivente”, perché la fissazione delle sue regole è il frutto dell’analisi della realtà, attraverso la quale la morale si fa diritto.

Ma occorre fare seria attenzione al concetto: è stato osservato, giustamente, che «la deontologia non è un limite ai comportamenti da tenere, né può essere intesa come chiusura o preclusione, o mera sanzione a violazione riscontrate»[2]. Quindi la norma etica non può considerarsi un limite conformativo alla propria condotta professionale, bensì deve essere lo strumento di valorizzazione degli aspetti primari del compito affidato al professionista dall’ordinamento giuridico. La deontologia allora assurge ad affermazione di un dovere generale di essere interpreti dei valori portati dalla propria professione, e di esprimerli – e di pretendere che i propri colleghi li esprimano – attraverso il rispetto di regole professionali, che attribuiscano una oggettiva scala gerarchica a tali valori.

Così come il medico deve tentare di salvare ad ogni costo la vita del paziente, valore assoluto nel campo delle scienze sanitarie, ma al contempo salvaguardare anche i principi della propria coscienza, così l’avvocato è tenuto alla difesa del proprio assistito, ma non rinunciando ai valori della verità e della lealtà, al fine ultimo dell’affermazione del diritto.

Ed i canoni deontologici, di norma, non sono di per sé esaustivi dell’intero mondo dei comportamenti che i destinatari delle regole possono assumere: i codici etici, in questo senso, costituiscono complessi di disposizioni che inducono mere esemplificazioni degli atteggiamenti più frequenti, non essendo esclusa la censurabilità, sul piano deontologico, di prassi che, pur non essendo specificamente contemplate nei codici stessi, appaiono in contrasto con i principi generali della lealtà e della correttezza[3].

 3.- Per quanto riguarda la professione forense un codice deontologico-tipo deve, ovviamente, occuparsi in primo luogo dei comportamenti che l’avvocato intrattiene con la parte assistita, con quella avversa, con i colleghi, con i funzionari amministrativi dello Stato che sono impiegati presso gli Uffici giudiziari, e, last but not least, con i magistrati. Ma non solo di ciò, un codice deontologico, si deve occupare, come vedremo.

         È necessario, sia per motivi di sintesi sia per rimanere aderenti al tema assegnatomi, limitare l’indagine a quest’ultimo specifico profilo, legato cioè al rapporto col giudice. Prima, però, di esaminare le norme di diritto positivo che disciplinano il “come” l’avvocato deve intrattenere le proprie relazioni personali e professionali con il giudice, non appare inutile ribaltare momentaneamente il quadro dei rapporti, ed analizzare il contesto normativo all’interno del quale sono regolamentate le condotte del magistrato nelle relazioni che tale ruolo impone di avere con i difensori delle parti.

 4.- È stato affermato in dottrina che lo sforzo che la “categoria” dei magistrati ha fatto per dotarsi di un codice di autoregolamentazione deontologica costituisce un esempio positivo e responsabile della tendenza della magistratura italiana a meditare sulla esigenza di pervenire ad un quadro normativo certo anche sul tema dell’etica professionale. Peraltro, vista la esistente riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario, il solo spazio di regolamentazione interna concesso ai magistrati appare essere proprio quello che ha riguardo alla deontologia. Ma “deontologia” non è, né dev’essere, solo il rapporto tra singolo avvocato e singolo magistrato nello specifico processo: si tratta di arrivare ad una disciplina generale, che prescinda dalle contingenze e dai personalismi.

         Lo sforzo compiuto dall’Associazione nazionale magistrati, ed in particolare dal Comitato Direttivo centrale, sul punto della disciplina etica da assegnare al contatto giudice-difensore, tuttavia, non mi pare essere stato così potente. Dopo aver naturaliter affermato che il Codice deontologico dei magistrati consiste essenzialmente in un complesso di “indicazioni di principio, prive di efficacia giuridica, che si collocano su un piano diverso rispetto alla regolamentazione giuridica degli illeciti disciplinari”[4], l’A.N.M. ha approvato un testo di 14 articoli nessuno dei quali specificamente dedicato al rapporto che i giudici hanno con gli avvocati. Il solo art. 2, il cui titolo – dedicato ai “rapporti con i cittadini e con gli utenti della giustizia” – la dice lunga sul fatto che il ruolo del difensore, costituzionalmente ritenuto un soggetto non “utente” della giustizia, ma espletante un servizio pubblico di necessità, si limita a prescrivere che “il magistrato tiene un comportamento disponibile e rispettoso della personalità e della dignità altrui”. Un po’ poco, soprattutto se si considera, appunto, che il difensore non può essere assimilato ad un semplice “utente della giustizia”. Né a dire che l’art. 10, destinato a sottolineare gli obblighi di correttezza del magistrato, comporti un valore aggiunto significativo, là dove si limita a ribadire che il magistrato «si comporta sempre con educazione e correttezza, mantiene rapporti formali, rispettosi della diversità del ruolo da ciascuno svolto». Forse l’unica disposizione che valorizza la veste del difensore è contenuta, allora, nell’art. 11 del Codice in discorso, il quale, a proposito della condotta da tenere nel processo, intima al giudice di «svolgere il proprio ruolo con pieno rispetto di quello altrui ed agisce riconoscendo la pari dignità delle funzioni degli altri protagonisti del processo, assicurando loro le condizioni per esplicarle al meglio». Certamente una norma culturalmente apprezzabile, con quel riferimento alla pari dignità delle funzioni, ancorché il ruolo dell’avvocato non risulti essere mai espressamente menzionato, come detto, in tutte le norme dell’articolato (se non, a ben vedere, nel solo art. 14, dedicato però alle funzioni, più burocratiche che giurisdizionali, svolte dai titolari di uffici direttivi).

         Se il Codice deontologico ha solo natura, come dire, “educativa”, certamente cogenza giuridica, autorità di norma imperativa, ha invece il D.L.vo 23 febbraio 2006 n. 109, recante la disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, frutto della legge delega 25 luglio 2005 n. 150 (delega specificamente attribuita con l’art. 1 comma 1 lett. f). A norma dell’art. 2 comma 1 lett. d) di tale decreto delegato costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni «i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti e dei loro difensori».

         Parrebbe, insomma, che la legge abbia fatto di più di quanto non abbia prodotto l’A.N.M. con riguardo alla regolamentazione dei rapporti con gli avvocati. Si censura l’abitualità da un lato, o la gravità dall’altro, dei comportamenti che il giudice assume con gli avvocati senza tener conto del dovere di correttezza. Più comportamenti scorretti, ancorché di non evidente rilevanza, costituiscono illecito disciplinare; al contempo anche un solo atteggiamento non improntato a correttezza, che si manifesti nella sua oggettiva gravità, è sufficiente per integrare la fattispecie dell’illecito.

 5.- Sul versante, invece, dei Codici di autodisciplina approvati dagli avvocati – dal punto di vista dell’etica da seguire – si mostra un’attenzione maggiore per quella che è, appunto, l’Autorità del giudice. L’art. 4 del Codice deontologico forense europeo detta principi severi e rigorosi in materia, specificando (comma 3) che l’avvocato deve dare prova di rispetto e lealtà nei confronti “dell’ufficio del giudice” (e qui la spersonalizzazione dell’elemento soggettivo non appare un caso); in nessun momento (comma 4) deve dare scientemente al giudice un’informazione falsa o tale da indurlo in errore (ecco, l’obbligo della verità![5]); e non deve, infine, (comma 2) prendere contatto con un giudice incaricato di una causa senza prima avvertire l’avvocato della parte avversa.

         È invece la parte IV del Codice deontologico forense italiano[6] ad occuparsi dei rapporti con i magistrati, in particolar modo con l’art. 53. Il principio generale contenuto nella disposizione è quello in base al quale «i rapporti con i magistrati devono essere improntati alla dignità e al rispetto quali si convengono alle reciproche funzioni». La norma detta poi tre specifiche prescrizioni; la prima – analoga a quella del Codice deontologico europeo – a mente della quale ogni contatto con il giudice investito della causa non può avvenire se non con la presenza del difensore delle controparte; la seconda per la quale l’avvocato chiamato a svolgere funzioni di magistrato onorario è tenuto a rispettare tutti gli obblighi inerenti a tali funzioni e le regole sulla incompatibilità; la terza, che vieta all’avvocato di profittare di eventuali rapporti di amicizia, familiarità o di confidenza con i magistrati per ottenere favori e preferenze: in ogni caso, deve evitare di sottolineare la natura di tali rapporti nell’esercizio del suo ministero, nei confronti o alla presenza di terze persone.

         C’è da dire, alla luce di una disciplina interna così dettagliata, che il complesso delle disposizioni che la classe forense si è data per autodisciplinare il proprio rapporto con la “classe” dei magistrati è certamente più pregnante e solido di quanto non lo sia, invece, il menzionato Codice deontologico dei magistrati con riguardo alle relazioni istituzionali e non con gli avvocati. Sarà forse perché, come diceva un impareggiabile principe del foro[7], advocati nascuntur, iudices fiunt; probabilmente sarebbe stato meglio il contrario, essendo costretti nel caso dei magistrati, se si volesse a tutti i costi seguir quel motto, a procedere ad una più specifica educazione e ad una più mirata didattica formativa anche sul piano della condotta professionale da seguire nel corso dello svolgimento della funzione.

6.- Il rapporto tra giudici ed avvocati, al di là della normazione positiva dei singoli ordinamenti interni, costituisce un tema di vastissime dimensioni, di episodi ed aneddoti che si perdono nella notte dei tempi, nel quale si intrecciano a volte invidie e rancori, inimicizie e grandi passioni, stima e gelosia, competizione e rivalità. Nell’immenso assortimento di comportamenti assolutamente corretti e franchi, che la pratica quotidiana ci offre, si registrano purtroppo con una preoccupante crescita episodi di reciproca diffidenza, se non addirittura insofferenza, che costituiscono l’anticamera per lo scoppio di tensioni i cui esiti non sempre risultano controllabili. Per quanto riguarda la classe forense due sono gli atteggiamenti difettosi, a mio parere, che occorrerebbe assolutamente evitare: da un lato una sudditanza psicologica spinta, deprecabilissima, che non trova nessuna ragione di esistere, e che spesso è portata sino alla esasperazione, con toni da commedia melodrammatica, del professionista nei confronti del giudice, quasi che il primo fosse un subordinato del secondo, o che quest’ultimo abbia il potere di vita e di morte sull’altro[8]; dall’altro lato, un atteggiamento di arroganza, di insofferenza, di sfrontatezza e di alterigia del difensore nei confronti del magistrato, motivato magari con riferimento a pregressi contatti avuti con costui, ovvero da inimicizia “epidermica”, o infine indotto dal comportamento inurbano del medesimo magistrato. Nessuna di queste due condotte può essere tollerata: non la prima, perché se è vero che il giudice esercita un potere dello Stato, che rimonta alla funzione giurisdizionale, è altrettanto innegabile che la dignità della toga non può essere svilita con atteggiamenti di miserabile sottomissione, nella speranza di guadagnar così fiducia e stima, o di ottenere un esito felice della lite nella quale si è assunto il patrocinio; non la seconda, frutto di una scorretta impostazione mentale, per cui il giudice (o il P.M., nel penale) è “l’avversario” da sconfiggere, in una arena in cui la supremazia intellettuale del difensore (lui, davvero libero ed indipendente, non “l’altro” al soldo dello Stato) non tollera deroghe. Sotto questo ultimo profilo non va dimenticato l’antico insegnamento secondo il quale «se la giustizia veglia affinché gli avvocati non vengano impunemente insultati in occasione del loro ministero, esige egualmente dal canto loro una grande moderazione per non dir nulla che sia estraneo alla causa o che offender possa senza ragione o la parte avversaria o la dignità dei Tribunali. Il campo di Temi, diceva un illustre scrittore, non dev’essere una arena di gladiatori. Egli è vero che si offrono alcuni affari che richieggono un nobile ardire per combattere con buon esito l’ingiuria e l’iniquità; ma le espressioni dell’avvocato devono sempre misurarsi sulla natura dei fatti e sulla realtà delle prove; altrimenti, senza bisogno, egli eccede i confini dell’onestà e del decoro, si rende responsabile, ed i giudici possono imporgli il silenzio ed anche assoggettarlo a multe e ad altre pene correzionali»[9]. Del resto, un atteggiamento equilibrato, consapevolmente improntato alla misura ed al buon senso è da sempre richiesto, all’avvocato, anche nei confronti degli altri protagonisti del processo[10].

7.- C’è un aspetto della condotta etica che riguarda i magistrati e che, a mio avviso, non è sottolineato a dovere, invece, nei codici deontologici forensi. Ed è quello dello stile di vita complessivamente condotta dall’avvocato. Il fatto che, come dice il preambolo del Codice forense italiano, l’avvocato «debba esercitare la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza», non può equivalere a riconoscere totale libero arbitrio nei comportamenti della vita sociale e finanche individuale. Mentre il Codice deontologico dei magistrati fa spessissimo riferimento alla vita sociale del magistrato, invitandolo a contenere ogni manifestazione nella quale possa minimamente adombrarsi il sospetto della perdita dell’indipendenza (si pensi al divieto di adesione ad associazioni che richiedono la prestazione di promesse di fedeltà, all’obbligo di non utilizzare la sua qualifica nelle relazioni sociali al fine di trarre vantaggi personali di qualsiasi genere, ovvero alle prescrizioni dell’intero art. 3 del citato D.L.vo n. 109 del 2006, che tratta degli illeciti disciplinari legati a fatti commessi fuori dell’esercizio delle funzioni[11]), il Codice forense non si cura a dovere dell’etica dell’avvocato allorquando il ministero della difesa non viene espressamente esercitato.

         Ecco che allora correttamente dovrebbe essere invece «esaminato, e per così dire regolamentato, ogni singolo aspetto della vita personale e professionale dell’avvocato»[12].

         Al pari di quello che continua, seppur con sempre maggior moderazione, ad essere affermato in settori della vita professionale di altri operatori cui la condotta anche della “vita privata” assurge a momento di verifica per accertare la sussistenza delle condizioni legittimanti la continuazione dell’attività[13], è necessario che si sottolinei l’importanza che l’esercente la professione forense impronti la propria condotta di vita a sobrietà, equilibrio, morigeratezza, evitando eccessi, atteggiamenti inutilmente teatrali, linguaggi triviali, contegni che possano arrecare disdoro alla professione forense ed alla stessa categoria di appartenenza. Insomma occorre andare al di là della formula del giuramento “professionale”[14], per arrivare ad affermare che l’etica forense la si attualizza in ogni aspetto della vita sociale, salvo, forse, quelli più intimi. Lo esige la dignità della toga, lo esige quel rispetto per «gli interessi superiori della Nazione» di cui alla richiamata formula solenne.

         È ben evidente ed ovvio che l’avvocato, così come per certi versi ancor più il giudice, subisca quotidianamente delle “tentazioni” che sono tali perché, cedendo ad esse, si tradisce quel giuramento. A tutto si può resistere, tranne che alle tentazioni, soleva dire Oscar Wilde: ed anche i giudici, come sappiamo bene, di tentazioni ne hanno mille. Le tentazioni di parlare, più che con le loro pronunce giurisdizionali, con le telecamere davanti; le tentazioni di riporre per qualche anno la toga ed andare a sedere in Parlamento; le tentazioni di andare alla perenne ricerca di un “consenso”; le tentazioni di utilizzare i propri provvedimenti come veicolo per sfoghi di carattere politico.

         Nessuno potrebbe pensare che il magistrato, sol perché ha deciso di intraprendere la carriera giurisdizionale, perda la sua individualità e la sua dignità di uomo: e dunque non gli è certamente precluso di avere corretti e sani rapporti con la stampa, decidere di impegnarsi nella vita collettiva – se del caso anche in politica – di enunciare anche il proprio personale pensiero nelle decisioni che assume, al fine di inviare segnali didattici o moniti giuridici. Ma il tutto, come per quel che si diceva per l’esercente la classe forense, deve avvenire nella estrema sobrietà, rifuggendo dalla maleducazione, dagli atteggiamenti saccenti e provocatori, senza assumere la veste di chi si ammanta di impartire lezioni pubbliche sul piano dell’etica[15].

 8.- Siamo partiti dalla constatazione che l’avvocato ed il magistrato, dal punto di vista istituzionale, non sono ruoli sovrapponibili o finanche assimilabili. Tuttavia punti di contatto tra le due funzioni, indubbiamente, ve ne sono. Il giudice esercita un potere, tra i tre in cui si suddivide l’assetto politico dello Stato, per il bene supremo dell’ordinamento giuridico; il difensore svolge un ruolo di garanzia a tutela – come detto – degli stessi interessi superiori della Nazione.

         Il punto di maggior contatto che i due ruoli evidenziano, non si risolve in altro, a ben vedere, che nell’esigenza di dover dare risposta alle istanze che vengono dai cittadini; il giudice per un verso, l’avvocato per un altro, sono al servizio di un interesse di rilevantissima importanza, quello all’ordinato sviluppo delle relazioni tessute tra i consociati. Artefici entrambi di un fenomeno straordinario: la traduzione del diritto astratto in giustizia concreta.

         Ed allora non si può non sottolineare che, osservate da questo punto di vista, non “istituzionale” ma metodologico, le due funzioni debbono essere considerate pari ordinate; non ce ne può essere una che domina sull’altra, pena l’impossibilità di dare una risposta giusta e corretta alle istanze dei consociati. Ma è sul piano della dignità che i due ruoli pesano assolutamente allo stesso modo. È stato già lucidamente detto che “le dignità delle funzioni giudicante e difensiva non possono essere graduate e devono, quindi, essere reciprocamente riconosciute»[16].

         Qualche soluzione, pertanto, può essere suggerita per il miglioramento delle relazioni tra componenti la classe forense e magistratura.

         A) Occorre, in primo luogo, dar vita ad un percorso “culturale comune”, che ponga le basi per un definitivo superamento di vecchi antagonismi e per l’affermazione del reciproco riconoscimento dell’importanza dei ruoli. E per far ciò si deve partire, necessariamente, da un ideale di rigore deontologico che sia “senza se e senza ma”, realizzato attraverso quella “volontà di deontologia”[17] che si può inoculare soltanto attraverso un studio comune. Del resto non è dallo stesso corso universitario che escono, poi, i magistrati e gli avvocati? Dunque la formazione unitaria deontologica costituisce il primo passo da compiere, con coraggio, superando diffidenze, anche comprensibili, ma non più, oramai, tollerabili.

         Sono gli stessi avvocati a chiederlo, come ha dimostrato un attento studio grazie al quale si è aperta una nuova stagione di riflessione sulla condizione, in generale, degli appartenenti alla classe forense[18].

         Gli avvocati ed i magistrati hanno radici comuni, ma anche “principi” comuni; si pensi al dovere (che è poi al contempo un diritto) di autonomia: il Giudice dallo Stato, l’avvocato dal proprio assistito. Dovere strumentale a garantire pienezza al precetto della supremazia della legge. Ma è anche il dovere di indipendenza a caratterizzare entrambe le funzioni: l’indipendenza dell’avvocato non può essere disgiunta da quella del giudice. Nell’art. 2 del Codice deontologico europeo si afferma che l’indipendenza del difensore è tanto necessaria per la fiducia nella giustizia quanto l’imparzialità del giudice. Nella stessa Carta internazionale dei diritti della difesa [19] si sottolinea all’art. 19 che è compito degli organi professionali forensi riaffermare l’indipendenza della magistratura e della professione di avvocato, assegnando agli stessi organismi finanche l’alta funzione di proteggere e difendere la dignità e l’indipendenza del potere giudiziario (art. 16 lett. d). Queste espressioni non debbono suonare strane (gli organismi di rappresentanza degli avvocati che si mettono a tutelare i giudici!), perché un magistrato asservito, subordinato, suddito di qualche altro potere o potentato, non serve alla classe forense, prima ancora che ai cittadini.

         Al contempo, un avvocato che solleciti al magistrato attenzioni non dovute (si pensi a titolo di esempio alla richiesta di conferimento di incarichi), o che si presti ad essere disponibile per agevolar costui nel raggiungimento di un qualsiasi obiettivo – oltre quindi la soglia della “normale collaborazione” – compromette la propria indipendenza.

         Non stiamo scoprendo nulla di nuovo quando ci riferiamo al bisogno di deontologia comune tra magistrati ed avvocati: già Calamandrei aveva intuito che il rapporto tra queste due categorie è sostanzialmente quello che c’è, in fisica, tra i vasi comunicanti [20].

         B) Occorre poi trovare forme di collaborazione istituzionali condivise, che aiutino, avvocati e magistrati, ad abituarsi a lavorare insieme, pur nel rispetto delle diversità delle funzioni. Un esempio emblematico in tal senso è quello della messa a punto dei cosiddetti “protocolli” (tipici quelli di regolazione delle udienze), le cui norme a ben vedere non son altro che l’esito dello sforzo di codificare principi già immanenti nell’ordinamento, ma che costituiscono un apprezzabile tentativo di uscire da una logica di contrapposizione tra ruoli attraverso una formalizzazione in termini di diritto positivo.

         C) Fondamentale, dopo un percorso formativo comune sul piano deontologico, è anche il momento del “colloquio” inteso in senso ampio, tra difensori e magistrati. Una relazione che deve essere improntata a massimo rispetto reciproco, a stima incondizionata, a buona educazione. Occorre evitare di utilizzare espressioni offensive del prestigio dell’ordine giurisdizionale, ovvero di palese e gratuita ironia [21], o addirittura rivolgere larvate intimidazioni al giudice. La lealtà come forma assolutamente indefettibile di comportamento deve ispirare ogni condotta del difensore: è stato osservato che «il rapporto con il giudice non può diventare critico e l’occasione del ministero (non) può essere motivo di spinta verso situazioni illegittime» [22]. Tuttavia questo “colloquium”, sereno, pari ordinato, non può mai scadere nella confidenza eccessiva: anche qui occorre fare attenzione ed essere severi con noi stessi. E’ buona regola evitare frequentazioni eccessivamente intime, affiatamenti oltre il limite della leale e corretta collaborazione, atteggiamenti platealmente amicali che possano indurre in sospetto.

9.- Quelli sopra enunciati sono alcuni, generali, suggerimenti che possono aiutare ad indirizzare l’operatore, specie se ancora giovane ed inesperto [23], alla ricerca di quali possano essere i criteri per instaurare un rapporto corretto e pulito con chi amministra la Giustizia. Ma i canoni fondamentali sono da sempre, e resteranno ancora, quelli della lealtà e della correttezza. È leale quell’atteggiamento di onestà e di dirittura morale, di attaccamento al proprio dovere ma con il rispetto assoluto alla propria ed all’altrui dignità, nel mantenimento degli obblighi professionali assunti nei confronti degli altri consociati. Se l’avvocato viene a conoscenza di fatti che possano influire sulle prove prodotte in causa, ha il dovere, se vuole osservare il canone della lealtà, di farli conoscere al giudice[24]. Per correttezza intendiamo l’immanente riferimento ad un determinato “contegno” che un professionista del diritto deve avere, o almeno ripromettersi di tenere, nei rapporti con coloro che con lui vengono in contatto.

         Se ci impegniamo a seguire queste due basilari linee-guida, come se fossero i due binari sui quali corre la nostra locomotiva forense, pretendendo che gli altri colleghi facciano altrettanto, contribuiremo a migliorare la qualità degli impegni professionali degli avvocati e dei giudici, nella comune tensione volta all’assolvimento dei reciproci doveri.

         Gli avvocati, del resto, non hanno bisogno di Elogi scritti dai giudici, ma del rispetto che la loro funzione merita ed impone. Si tratta, però, di un rispetto che deve venire prima di tutto da loro stessi. Non dimenticando mai il pensiero del Re di Persia Rica che, interrogando un alto magistrato circa le ragioni per le quali aveva venduto la propria intera biblioteca, gli domandò come avrebbe fatto, d’ora in avanti, a poter giudicare. Com’è noto il giudice rispose: «Se voi conosceste il palazzo non parlereste così: noi abbiamo dei libri viventi che sono gli avvocati, essi lavorano per noi e si incaricano di istruirci[25]»!

 


(*) Testo della relazione svolta al Convegno dal titolo “La Deontologia: avvocati e magistrati”, organizzato dall’Associazione Ius ac bonum e tenutosi a Roma il 9 luglio 2008. 

[1] Prisco, Le tentazioni del magistrato e l’antitodo della sobrietà, Relazione al seminario italo-francese di Deontologia giudiziaria svoltosi a Napoli il 4-5 novembre 2005, ricorda a quei magistrati che si sentono programmaticamente un “contropotere” che essi stessi esercitano «un potere legale non da poco, in grado di incidere pesantemente sui diritti e i beni dei cittadini».

[2] Danovi, La toga e l’avvocato, Milano, 1993, 42.

[3] Si veda la disposizione contenuta nell’art. 60 del vigente Codice deontologico forense italiano, vera e propria norma di chiusura (tale, infatti, è la denominazione della sua rubrica), a mente del quale “le disposizioni specifiche di questo Codice costituiscono esemplificazioni dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei principi generali espressi”. Sul tema si vedano le pronunce della Corte di cassazione per le quali il principio di legalità non si applica alle infrazioni deontologiche.

[4] Opina in modo diverso, però con riferimento alle disposizioni deontologiche forensi, Ciavola, La deontologia dell’avvocato all’interno del processo, Relazione svolta al Centro di formazione permanente dell’AIGA di Catania il 10 ottobre 2003, per il quale “le norme deontologiche hanno una forte base etica ma assumono, sul piano formale, natura di regole giuridiche obbligatorie, poiché si impongono con autorità e sono assistite da un sistema organico di sanzioni”.

[5] Sul quale, in rapporto all’attività svolta nel giudizio, ex professo, Grasso, Note sul difensore nel processo civile, in Giur. it. 1986, IV, 192.

[6] Approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 17 aprile 1997, più volte poi modificato in seguito (il 16 ottobre 1999, il 26 ottobre 2002, il 27 gennaio 2006 e, da ultimo, a seguito della L. 4 agosto 2006 n. 248, il 14 dicembre 2006).

[7] Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1959, IV ediz., 47.

[8] Non necessariamente, per essere esecrabile, questo comportamento deve raggiungere i traguardi della plateale soggezione, essendo a mio parere sufficiente una condotta eccessivamente e gratuitamente adulatrice delle doti del magistrato, perdendo quel carattere assolutamente indispensabile tipico dell’indipendenza, facendosi – come direbbe un illustre processualista (Fazzalari, Il cittadino, l’avvocato e il giudice, in Giur. it., 1974, IV, 65 ss.) – “cera molle in mano ai giudici che tendono ad impersonare tutti i ruoli del processo, a far provvista di potere nell’accezione più bruta”.

[9] Foramiti, Avvocati, in Enciclopedia legale, Venezia, 1938, Vol. I, richiamato da Ricciardi, Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, Milano, 1990, 342.

[10] Cfr. Farnese, Il vero signore (guida pratica di belle maniere), Milano, 1947, 228, che cita il trattato del Sansovino, edito a Venezia nel 1559 («quasi un secolo prima che il signor Azzeccagarbugli aprisse studio a Lecco»), nel quale v’è più di un ammonimento a non abusare delle polemiche nel corso del processo: «Ne’ parlamenti non oltrepassate nelle maldicenze più oltre di quello che si ricerchi nella causa. Temperatevi di fare l’ingiuria alle persone, e abbiate per fermo, che l’avversario si vince con la ragione, non con le maldicenze!».

[11] La norma contempla ben otto fattispecie, quali quella della frequentazione di soggetti sottoposti a procedimento penale, dell’iscrizione a partiti politici od il coinvolgimento nelle attività di persone operanti nel settore economico o finanziario, ecc.

[12] Nanna, Deontologia professionale dell’avvocato civilista, Relazione al Seminario svoltosi a Bari il 27 marzo 2003.

[13] Si pensi alla recente decisione della Suprema Corte, di cui si è occupata ovviamente la stampa quotidiana, che ha convalidato la decisione disciplinare assunta nei confronti di un appartenente all’Arma dei Carabinieri, “colpevole” di intrattenere platealmente una relazione sentimentale con una donna coniugata.

[14] Che, com’è noto, è la seguente: «Giuro di adempiere ai miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza per i fini della giustizia e per gli interessi superiori della Nazione».

[15] «Soprattutto, non bisognerebbe augurarsi che egli sia (e chi ha vissuto in Italia negli anni Novanta del secolo scorso ha avuto talvolta motivo di temerlo) il custode della pubblica virtù»: Prisco, op. cit.

[16] Ricciardi, op. cit., 341.

[17] Il termine è di Danovi, op. cit., 43.

[18] Ci si riferisce al rapporto commissionato dalla Cassa nazionale forense al Censis, che al termine dello studio ha divulgato un volume dal titolo Professione avvocato, Milano, 1990.

[19] Approvata in Canada nel 1987. La si può leggere, tra l’altro, in Foro it. 1987, V, 483.

[20] Celeberrimo è quel passo della prefazione del suo Elogio, cit., in cui si legge che “le virtù e i difetti dei giudici non possono essere serenamente apprezzati se non quando si pensi che essi sono in realtà la riproduzione su un diverso piano (quasi si potrebbe dire l’ombra deformata dalle distanze) delle corrispondenti virtù e manchevolezze degli avvocati”.

[21] Anche l’apparentemente semplice “invito” rivolto al giudice di “studiarsi la causa” può costituire espressione deontologicamente censurabile (cfr. Cnf 16 luglio 1982, in Rass. Forense 1984, 71). Il diritto di critica delle decisioni giurisdizionali, assolutamente lecito ed anzi doveroso, deve essere sempre improntato a cautela e misura, evitando di trascendere in personalismi ovvero facendo ricorso ad accuse oltraggiose. Va però rammentato che, secondo la giurisprudenza disciplinare, nel conflitto tra diritto a svolgere la  difesa giudiziale, nel modo più largo ed insindacabile, e diritto della controparte (e del giudice) al decoro ed all’onore, prevale il primo, salva l’ipotesi in cui le espressioni offensive siano gratuite, ossia non abbiano relazione con l’esercizio del diritto di difesa e siano oggettivamente ingiuriose (cfr. Cnf  6 giugno 2002 n. 81, in Rass. Forense 2002 n. 4).

[22] Danovi, Corso di ordinamento forense e deontologia, IV ed., Milano, 1995, 289. L’autore richiama a tal proposito la frode processuale, oggi meglio definita “acquisto di influenza”, con la quale si inganna nel processo il giudice, ed anche il millantato credito, attraverso il quale il patrocinatore riceve dal cliente denaro od altra utilità facendo credere di avere molta influenza sul giudice o sul pubblico ministero.

[23] Qui il tema dello scadimento della “scuola” forense, dell’oggettivo degrado dell’intimo rapporto tra Maestro e discepolo, in termini di insegnamento di precetti deontologici, si fa avvertire con prorompente ineluttabilità. Questo tipo di relazione, più umana che didattica, parrebbe essere venuta meno negli ultimi decenni, caratterizzati da un aumento esponenziale del numero degli iscritti negli Albi professionali e dalla pur comprensibile volontà dei giovani di iniziare prima possibile a “camminare sulle proprie gambe”.

[24] Appresa la notizia della declaratoria di falsità di un documento, successivamente alla sua produzione in un determinato giudizio, commette illecito disciplinare, sul piano della condotta sleale, l’avvocato che ometta di riferire la circostanza al magistrato (Cnf 17 aprile 1986, in Rass. Forense 1987, 301).

[25] Si tratta del celebre passo tratto dalla sessantottesima lettera ai Persiani di Montesquieu: “nous avouns des livres vivants qui sont les avocats: ils travaillent pour nous, et se chargent de nous instruire”.

3 Responses to “L’etica forense al cospetto dell’autorità del giudice”

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  2. Carmine Italo Pastore scrive:

    Ho letto questo suo saggio sulla deontologia e l’ho trovato “perfetto” .- sono un ing. e non un avv. ma invidio gli avvocati per due ragioni.- La prima è il loro grande spirito di corpo.- La seconda e che tra gli avv ci sono persone come Lei.-
    grazie

    • rmurra scrive:

      Egregio Ingegnere
      La ringrazio assai per le Sue espressioni anche se in parte non le condivido (la categoria forense, infatti, è assai divisa, si va via via degradando, non fa assolutamente “squadra”, e lo dimostra il fatto che sebbene in Parlamento siedano decine di avvocati costoro poi dimenticano di indossare – o di aver indossato – la toga e non fanno nulla per migliorare la professione e, forse, pure la giustizia).
      Questo mio blog ora lo frequento poco, ed è la ragione per la quale la mia risposta è in inescusabile ritardo. Cordialità!

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